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ARGOMENTI

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LA VITA PIU' FORTE DELLA MORTE
 

1. Il pensiero e la realtà della morte
Ẻ stato detto che la morte costituisce “il caso serio della vita”. Tutto il lavoro umano diventa un’ingente impresa per affrontare la morte. Basta pensare alle cure mediche e alle altre opere di benessere per il corpo che sono ricercate appassionatamente con lo scopo di allontanare più che sia possibile il momento supremo dell’abbandono della vita. Similmente si può dire per coloro che tentano in ogni modo di affermare la propria personalità sia nella scienza sia nell’arte, al fine di lasciare un’impronta di sé nella storia per non essere “come un uccello che vola nell’aria, il cui volo non lascia segno” (Sap 5,11).
Il pensiero della morte tuttavia può generare anche la reazione opposta, quella di uno sforzo quasi ossessivo d’ignorarla e di nasconderla, perché la sua constatazione può provocare turbamento e angoscia. Succede allora che il cadavere anche delle persone più care non lo si custodisce in casa, vegliando in preghiera e in silenziosa meditazione, ma lo si lascia nelle camere mortuarie degli ospedali, accanto ad altri defunti, abbandonato a se stesso e privo di attenzioni e di cure sia umane che religiose. Lo si allontana dallo sguardo in modo che non intralci il percorso normale della vita e non distragga inopportunamente dal vortice degli impegni quotidiani. La frenetica vita terrena deve andare avanti nonostante la morte. Si pensa e ci si illude così di superare l’impatto dell’interruzione del movimento e dell’affanno esistenziale. Il silenzio e l’oscurità della morte fanno paura.
Alcuni ritengono che provvidenzialmente l’istinto naturale allontana gli uomini dall’oppressione della morte, altrimenti verrebbero meno all’azione e al desiderio di vivere. La spiritualità cristiana invece ha sempre predicato che il pensiero della morte giovi a un proficuo rendimento per un’esistenza giusta e virtuosa. Il cristiano dovrebbe guardare francamente alla morte né con spavento, come fosse la porta ultima delle catastrofi e dei fallimenti, ma neanche con indifferenza, come fosse qualcosa che non lo riguarda, né con sfrontata disinvoltura e allegria quasi fosse un caso spensierato. La vede in faccia con profonda responsabilità e con intima speranza, in forza dell’annuncio della resurrezione.
La tensione dell’attesa del giorno ultimo della disfatta totale della morte non impedisce il cristiano, anzi lo stimola a ponderare cautamente i vari aspetti e i problemi attorno al suo accadimento. Anche sotto l’aspetto medico è importante determinare quando un uomo si può considerare morto, per stabilire la sua autentica e concreta perdita dell’esistenza terrena. È in atto un acceso dibattito sull’eutanasia come anche una riflessione sulla donazione degli organi utili alla vita di altre persone. Per altro verso si fa valere il diritto a morire in pace, mentre si mantiene in vita artificiosamente una persona morente con l’accanimento terapeutico, che ha poco a che vedere nei confronti di un prolungamento salutare del tempo e di un allontanamento dalla fine.
In effetti il pensiero della morte non solo non deve far soccombere l’anelito alla vita, riducendo l’entusiasmo e la gioia di vivere, anzi proprio esso diventa sprone per intensificare e valorizzare tutto ciò che sulla terra si opera, come testimonia il testo sapienziale del Qohelet, appartenente ai libri dell’Antico Testamento. In esso vi è un’esaltazione della vita e, con la vita, della gioia, a motivo precisamente della costante consapevolezza della morte. Il Qohelet afferma la vittoria della vita sulla morte, non nel senso trionfalistico e sprezzante intorno al morire umano, ma nel senso più umile e semplice di saper strappare alla morte quelle briciole di vita durante i giorni che Dio concede sotto il sole. Sono briciole sì, ma pur sempre belle e dilettevoli per chi sa accontentarsi; d’altronde tutto il resto è vanità. Ne deriva che ogni valore dell’umana esistenza sia posto giustamente nella dovuta evidenza e nulla vada sprecato di quanto vi è di bello e di buono e di giusto. Pertanto la morte si fa pungolo per la vita, affinché ogni momento dello svolgimento storico sulla terra sia colto nel suo merito più vero.
Ne è conferma anche una poesia taoista di Lao-Tzu, dal titolo La morte, la vita, nella quale si dice tra l’altro: “La morte è la nostra eterna compagna. È sempre lì, alla nostra sinistra, ad un passo di distanza da noi. Ci osserva, ci sussurra all’orecchio, a volte…sentiamo il suo gelo. È lì accanto a noi, ci osserva, ci osserverà sempre, sino al giorno in cui ci toccherà. La morte è il nostro più vicino saggio consigliere, ogni volta che ne senti il bisogno, voltati e chiedi consiglio a lei, la troverai lì, alla tua sinistra, disponibile. Se imparerai a farlo senza vani timori, ti sbarazzerai delle maledette meschinità proprie degli uomini che vivono”.

 


2. Varie interpretazioni della morte
Lungo la storia del pensiero umano vi sono state diverse visioni della morte. Questa inesorabilmente raggiunge ogni essere umano, non costituisce un’esperienza esclusiva del cristiano. I pensatori, i poeti, gli artisti di tutte le culture, come anche gli uomini religiosi e spirituali di svariate credenze hanno affrontato l’impatto del morire e hanno tentato di proporre soluzioni più o meno significative, ma nessuno è riuscito a risolvere quel mistero oscuro e sconvolgente. Qui si pone la forza vitale del cristianesimo, il quale unicamente annuncia e vive la realtà inaudita che con la morte “la vita non è tolta, ma trasformata”, come diceva l’antica liturgia latina: vita mutatur, non tollitur. Ma procediamo con ordine: una prima riflessione si sofferma sulle molteplici concezioni della morte nelle culture umane; una seconda considerazione si concentra specificamente sulla visione della fede cristiana.

Le religioni pagane primitive possiedono un forte senso del culto e della venerazione dei morti, espresse nei riti funebri e nel rispetto e nell’invocazione dei defunti dopo la morte. Tutto ciò può essere frutto della paura umana di perdere la vita, del desiderio naturale di immortalità.Comunque questi riti e pratiche sono ricchi di valori umani e sociali. Il senso fondamentale s’innesta nella solidarietà dei vivi con i morti. La persona scomparsa attraverso sogni, visioni, fenomeni atmosferici, agisce e rivendica i suoi diritti, continua a vivere come se facesse parte dello stesso mondo dei viventi. Le religioni misteriche, sia antiche che odierne, considerano l’uomo possessore in nuce di una sostanza naturalmente spirituale e immortale, estranea alla materia, chiamata anima o psiche. Secondo questa visione l’uomo non ha bisogno di ottenere l’immortalità, poiché già la possiede, contiene già la felicità e la pienezza della vita. La morte non è per se stessa negativa né significativa, perché l’uomo non muore, ma perde solo il corpo, da cui l’anima viene come imprigionata e ottenebrata. Ne nasce una concezione disincarnata e spiritualistica, in quanto la morte non ha alcuna rilevanza né forza etica, ma consente all’uomo di vivere pienamente la propria libertà e ricchezza spirituale.
Vi è poi la dottrina della trasmigrazione delle anime o della reincarnazione o metempsicosi. Secondo tale prospettiva l’uomo, identificato essenzialmente con la sua anima, possiede la capacità di animare corpi diversi dal proprio, anche corpi di animali e di piante, e di vivere in essi dopo la sua morte. Lo scopo è di compiere la purificazione dell’anima, che viene ulteriormente sottoposta alla schiavitù del corpo e alla sua pesantezza. Alla fine di successive esperienze, l’uomo giunge alla liberazione dalla delimitazione corporea e dalla materia e può ottenere la perfezione. In questa teoria si ritrova una concezione fondamentalmente dualistica della persona umana, contrapponendo lo spirito alla materia, in una perenne conflittualità e annientando l’identità della propria soggettività. Essa sta diffondendosi nel mondo occidentale, ma la sua origine proviene dall’induismo e, trasfusa in occidente, subisce una distorsione, poiché nelle religioni orientali la reincarnazione non viene vista come un evento gradevole, anzi è temuta come una punizione legata alla legge inesorabile del “karma”, cioè dell’affaticamento pesante e sofferente.
Il pensiero materialista vede la vita umana ristretta entro i confini terreni, per cui la morte rappresenta la fine totale e risolutiva dell’esistenza. Questo è vero per l’epicureismo antico secondo il quale la morte è privata di ogni rilevanza etica o di senso metafisico. Basta ricordare la famosa frase di Epicuro: “La morte non è nulla per noi; poiché quando noi esistiamo, la morte non esiste ancora; quando la morte c’è, noi non esistiamo più”. Ne segue che l’epicureo si dedica con tutte le proprie forze a godere della vita presente, con un’unica motivazione di approfittare dei beni della vita terrena, l’unico spazio vitale che esiste e che vale la pena sfruttare fino in fondo.
Similmente, a livello più sociale che individuale, le filosofie materialistiche moderne hanno riproposto la nullità del senso e della forza della morte, poiché affermano che l’intera umanità, fin dal suo inizio, è inserita in un processo di sviluppo naturale e sociale necessario. All’interno di esso gli individui non sono considerati nel loro valore singolare, ma solo in funzione del bene della società e della nazione, tanto che possono anche essere eliminati, pur di attuare un benessere totale o paradiso umano sulla terra. Questa visione è sorta dall’idealismo hegeliano, poi si è sviluppata nel marxismo come nel nazismo. La morte diventa il termine e la scomparsa del singolo o di un gruppo, ma non deteriora o annulla il bene della collettività. È chiaro che le conseguenze etiche e sociali sono disastrose.
L’esistenzialismo sottolinea l’angoscia costante della morte durante la vita presente, sperimentata da tutti. L’uomo esiste in una solitudine amara, dopo la proclamazione nietzschiana che Dio è morto, dopo che la scienza ha potuto provare che l’essere umano è un animale e che tutto il resto è un’illusione. La morte allora segna la fine assoluta, la distruzione ultima, beffarda e fredda di ogni realtà umana, di ogni progetto, di ogni speranza. Da qui il senso angoscioso e pauroso di fronte alla morte, come afferma Sartre: la vita dell’uomo è un viaggio che parte dal nulla e va verso il nulla; una vita estremamente fragile e instabile, oppressa sotto la minaccia continua della morte che avanza inesorabile e s’introduce in ogni momento e in ogni situazione sul cammino dell’esistenza. Il risultato fa sì che l’uomo viva con una permanente “nausea” metafisica. Egli non deve sfuggire a questa consapevolezza, ma deve vivere autenticamente il futuro annientamento con coraggio, consapevole e disperato, perché sa bene che egli è una “passione inutile”.
Si può dire che alla fin fine l’angoscia di fronte alla morte si presenta come la domanda di senso, di pienezza, la richiesta metafisica dell’esserci, il desiderio in fondo di una insofferenza per il dover morire e paradossalmente dimostra l’anelito verso l’immortalità.

 

 


3. La visione cristiana della morte
Il cristianesimo non ha mai considerato la morte come qualcosa di buono in se stessa, poiché si pone contro la vita, è distruzione della vita. Perciò essa costituisce un fatto negativo, un male; non soltanto un semplice disfacimento del corpo e dell’uomo, ma un complesso di negazione del vivere e dell’agire umani. Tommaso d’Aquino ha affermato che essa è “la più grande delle disgrazie umane”, come anche il colmo di tutti i mali, in essa “la vita è rubata”. Propriamente parlando, la morte non proviene da una causa positiva né finale né efficiente,ma piuttosto da una “causa deficiente”, cioè dalla mancanza di bene o di essere o di ordine.
La morte quindi indica un male perché si oppone alla vita, che è un bene. Essa mostra l’assenza di Dio, il Vivente e principio della vita. Possono amare la morte solo coloro che odiano la vita e perciò rifiutano il massimo dono di Dio. La morte determina la povertà totale, la separazione forzata dalle persone amate, segno di estrema solitudine. Ne segue che essa viene vissuta come una pena, una punizione. In tal senso l’ha sempre compresa la teologia cattolica, secondo la quale la morte è entrata nel mondo a causa del peccato ( Sap 1,13; 2,23-24). Sebbene l’uomo possedesse una natura mortale, Dio lo destinava a non morire. La morte fu dunque contraria ai disegni del Creatore ed entrò nel mondo quale conseguenza del peccato dei progenitori, come ribadisce il Catechismo della Chiesa Cattolica 1008, dove si dice che essa è l’ultimo nemico dell’uomo a dover essere vinto. La schiavitù della morte e del diavolo, padrone della morte, è un tema comune nel Nuovo Testamento (cf. Gv 8,44; Eb 2,14).
Tuttavia la morte dell’uomo è stata sconfitta per mezzo della morte di Cristo e della sua risurrezione, da cui è donata la salvezza agli uomini. Cristo trionfa sul male in modo pieno e definitivo, ma trionfa paradossalmente morendo sulla croce, inghiottendo il veleno della morte, condividendo la corruzione e la decadenza umane; in altre parole non ha sconfitto la morte al di fuori di essa o superandola dall’esterno, ma abbracciandola e inserendosi pienamente in essa con la sua personale disponibilità. Egli non la subisce passivamente, ma la assume e la affronta con piena libertà e determinazione. Gesù, l’uomo uguale a noi eccetto il peccato e insieme vero Figlio di Dio, non poteva identificarsi al peccato, ma prende sopra di sé tutte le conseguenze del peccato, tra cui la più grave propriamente è la morte.
Da ciò deriva che lui, l’innocente senza alcuna colpa, sottomettendosi alla morte, causata dal peccato, la disintegra dal di dentro, poiché lui non era destinato alla morte né sottoposto al suo dominio. Liberamente accettandola e obbedendo ad essa, che costituisce l’ultimo aspetto della schiavitù della legge, ne scioglie le catene, liberando la natura umana dalla sua oppressione. Pertanto Cristo trasforma mirabilmente la morte in vita, in quanto la redime con il suo amore e con l’effusione del suo sangue, facendosi totalmente solidale con la mortalità umana. Tale vittoria raggiunge la piena manifestazione e totale glorificazione con la risurrezione. Cristo diventa così causa e strumento per la sconfitta e la scomparsa totale e ultima della morte.
Inoltre Gesù vive l’offerta della croce per amore del Padre e degli uomini, in modo che la morte, accettata gratuitamente, non ha più potere sull’uomo e Gesù dimostra che l’amore è più forte della morte: l’amore unisce ciò che la morte vorrebbe separare. In altre parole Gesù si affida totalmente al Padre, mostrando che la morte non costituisce più un luogo di separazione da Dio, ma un atto di piena adesione e abbandono al suo volere. Viene trasfigurata in questo modo la realtà della morte: da male totale diventa un bene estremo. Gesù sulla croce perdona coloro che lo crocifiggono, attuando con questo gesto il superamento dell’odio con cui i carnefici si accaniscono contro di lui. In forza di questa sua profonda misericordia, accolta dal volere del Padre, egli sconfigge l’odio e la violenza di cui la morte è segno decisivo, per instaurare il suo regno di carità e di perdono.
Dietro la sconfitta operata da Cristo, la morte del cristiano diventa “morte nel Signore”, quale unico rimedio e superamento della paura e dell’angoscia. Essa non è più fonte di sconforto e di trepidazione, legati al castigo o alla pena, ma si trasforma in un momento e un motivo di speranza e di compimento. L’Apocalisse dice: “Beati fin d’ora i morti che muoiono nel Signore” (Ap 14,13). Malgrado tutte le difficoltà e le sofferenze che possa patire, il cristiano non perde mai la speranza, anzi la certezza che la vita vince la morte: “Portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo” (2Cor 4,10).
Alla luce del mistero pasquale di Cristo, veramente la morte ne esce trasfigurata, oltre che annientata, assumendo un valore del tutto inaspettato e inaudito: si fa solco e strumento per la vita. Certamente a livello umano resta il dramma di affrontare l’avvento della morte, che rappresenta come “l’ultima tentazione”, nel senso personale di ultima prova che consente la decisione dell’affidamento a Dio, ma anche, nell’aspetto temporale, come l’estremo appuntamento e l’occasione terminale offerta dal percorso storico, in cui è possibile in suprema istanza rendersi conto della propria vita e farne coscientemente e concretamente un atto d’amore. Tale scelta definitiva però presuppone una vita vissuta nella fede.
Per questa ragione si può dire che il morire costituisca un evento che abbraccia tutta l’esistenza terrena, la quale si conclude ma non s’identifica con esso. Ogni giorno il senso della morte suscita un sereno distacco dal possesso delle cose, dalle prospettive attuali, dall’attaccamento al lavoro e alle persone che ci attorniano e che riempiono la vita, ma insieme fa germogliare il desiderio di amare, la ricerca dei valori superiori, di una fiducia sempre più avvinta a Cristo, di una donazione più generosa al prossimo. Dietro a Gesù e sulla traccia della sua stessa esperienza, il morire quotidiano comporta inscindibilmente la crescita e la maturazione di sé, insieme a un sano, efficace rapporto con gli altri e con le realtà attorno a sé. Ne consegue che quando sopraggiunge fisicamente la solitudine della morte, accolta nell’amore e nell’affidamento, essa si trasforma in passaggio e in conquista della vita vera e imperitura, che non conosce più l’interruzione o la corruzione o l’angoscia di dover nuovamente soccombere.
Si può dire dunque veramente che nel cristianesimo la vita vince la morte e la morte non è altro che un passaggio finale verso la vita indistruttibile e felice.
 

 

 

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