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La quaresima è un periodo speciale in cui il popolo cristiano si prepara a
celebrare la Pasqua, il centro della nostra salvezza e di tutto l’anno
liturgico. L’orientamento pasquale sorregge e vivifica la quaresima quale
cammino per compartecipare alla morte di Cristo e alla sua risurrezione.
È un tempo favorevole per sostare con Maria Santissima e l’apostolo Giovanni
accanto a Cristo che sulla croce consuma per l’intera umanità il sacrificio
della sua vita. Così possiamo riscoprire il suo amore infinito e la sua grande
sofferenza: dolore e amore formano l’anima del cristianesimo. Da qui il valore
delle pene e delle tribolazioni vissute in unione a Gesù nostro redentore.
“Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto” (Gv 19,37): è un tempo
propizio per guardare con cuore compunto e con intima fiducia al costato
squarciato di Gesù, da cui sgorgano “sangue e acqua” (Gv 19,34). Sono i simboli
dei sacramenti, in particolare dell’eucaristia e del battesimo, come anche della
riconciliazione. Da qui l’invito della Chiesa di vivere l’esperienza della
purificazione dai peccati e del nutrimento del Corpo e del Sangue di Gesù, quale
fonte di rinnovamento spirituale e di rinvigorimento nella fede e nell’amore, in
conformità agli impegni del nostro battesimo.
È un tempo di
raccoglimento e di silenzio, esteriore e interiore, per immergerci nell’incontro
vitale con Dio nostro salvatore, da cui attingiamo grazia e forza per affrontare
le difficoltà e le lotte di ogni giorno, senza lasciarci travolgere dall’inganno
e dalla vanità delle realtà mondane e dal chiasso che ci sovrasta e impedisce di
trovare il senso giusto e vero della vicende umane.
La quaresima abbraccia un periodo di quaranta giorni, in collegamento alle
vicende raccontate dalla Bibbia: ci ricorda i giorni del diluvio universale, gli
anni trascorsi da Israele nel deserto, i giorni e le notti vissuti da Mosè sul
Sinai, dal profeta Elia nel deserto prima di giungere all’incontro con Dio sull’Oreb,
i giorni in cui gli abitanti di Ninive hanno fatto penitenza. Gesù stesso ha
sperimentato nel deserto la lotta contro Satana per quaranta giorni, prima di
iniziare la sua missione verso il popolo; dopo la sua risurrezione è rimasto
ancora sulla terra quaranta giorni con i suoi discepoli, prima di salire al
cielo e tornare presso il Padre. Da questi collegamenti biblici si capisce come
il tempo quaresimale sia propriamente un tempo di grazia e di salvezza, pur in
mezzo a prove e difficoltà. Tutto ciò per farci intendere che il Signore viene
in nostro aiuto e ci fa superare ogni travaglio se noi ci affidiamo a Lui e
cambiamo l’orientamento del nostro animo, non più rivolto e assorbito dal
peccato ma totalmente orientato a Dio e alla sua opera di redenzione per noi e
per i nostri fratelli. Perciò è un tempo di vera conversione.
Nel vangelo (Mt 6, 1-6. 16-18) che ascoltiamo nella liturgia del mercoledì delle
ceneri, Gesù dice chiaramente quali sono i modi per vivere efficacemente la
quaresima. Sono tre: anzitutto una “preghiera” più viva e sincera; poi un
impegno concreto di “digiuno”, non solo dal cibo, ma anche dai divertimenti, dai
peccati, dal chiasso, dai pettegolezzi; infine una “carità” generosa nel porgere
aiuto ai fratelli bisognosi, non solo con il denaro, ma anche con l’assistenza,
la pazienza, il conforto e la compassione.
Don Renzo Lavatori
Gli evangelisti, Matteo, Marco
e Luca riportano il racconto delle tentazioni. Proprio all’inizio della sua vita
pubblica, Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito e ivi fu tentato da satana.
I racconti non si fermano sui particolari, ma vogliono dimostrare la fermezza di
Gesù, la sua disponibilità totale a seguire un messianismo conforme alla volontà
di Dio, di senso totalmente opposto alle prospettive umane.
Matteo (4,1-11), come anche Luca (4,1-13), descrivono il contenuto delle
tentazioni. Satana si avvicina a Cristo chiamandolo “Figlio di Dio”, il nome che
ha ricevuto nel battesimo, mettendo in crisi propriamente la sua condizione
filiale: “Se sei Figlio di Dio…”. Insinua così il dubbio e perciò fa balenare
l’esigenza che Gesù lo dimostri in modo strepitoso, contrario al piano proposto
dal Padre.
La tentazione tende ad allontanare Gesù da Dio, proponendo un modo di realizzare
l’opera salvifica in contrapposizione alla prospettiva divina. Sono dunque
tentazioni messianiche perché riguardano la salvezza e il modo di attuarla:
quello proposto dal Padre, che addita la strada segnata dal servo sofferente, o
quello prospettato dagli uomini, fondato sulla strategia della potenza. Gesù
deve scegliere: o rimanere in sintonia con la volontà divina o puntare sull’autoesaltazione,
con la conseguenza di vanificare il disegno salvifico.
Ad un primo acchito i suggerimenti di satana appaiono suggestivi e accettabili,
addirittura benefici. Il nemico gli prospetta di cambiare la pietra in pane, in
vista di un legittimo sostentamento del corpo dopo quaranta giorni di digiuno;
in fondo non occorre accentuare la mortificazione, a discapito del benessere non
solo fisico, ma di tutto l’uomo. Di fatto pretende di mettere al primo posto il
godimento corporale, la soddisfazione dei bisogni materiali. Nella seconda
proposta, sul pinnacolo del tempio, viene progettata un’azione che, tutto
considerato, non sembra contraria al bene proprio e altrui, anzi pare che
favorisca il riconoscimento messianico a gloria di Dio e a vantaggio del popolo.
Concretamente, invece, intende porre la potenza divina a servizio della vanità
umana. Infine con la terza suggestione, offrendo la visione dei regni della
terra, il diavolo presenta apparentemente la possibilità di un sano impiego del
potere sociale, per influire efficacemente sull’andamento dei popoli. Al
contrario, vuole suscitare la sete di dominio, per ottenere l’asservimento degli
uomini.
Pur sperimentando la durezza
umana delle tentazioni e il loro negativo influsso, la fermezza di Gesù mette in
evidenza le esigenze della fede, legate alla trascendenza di Dio e ai suoi piani
sempre misteriosi, che domandano docilità e abbandono totale. Ora il messianismo
che si incarna nella figura del giusto e del servo obbediente è difficilmente
accettabile dalla logica umana, così aliena dalla sofferenza e dalla
mortificazione, poiché presenta l’umiltà al posto della potenza, il sacrifico al
posto del benessere, il silenzio al posto della gloria. Tuttavia venir meno alla
certezza di una tale prospettiva messianica, voluta da Dio, significa non
fidarsi di lui e mettere in dubbio il suo disegno salvifico. A questo punto si
richiede una forza di volontà non comune, per superare il disorientamento, per
ricuperare la limpidezza di mente e la disponibilità d’animo, che si fondano
unicamente in Dio, senza pretese né conferme esteriori.
Di fronte alle proposte di Satana, veramente suadenti e suggestive, Gesù sceglie
con intendimento e con saldezza il disegno sapiente del Padre, confidando nella
sua fedeltà e nel suo amore, anteponendo i modi di pensare e di agire di Dio a
quelli degli uomini.
Luca conclude dicendo che “il diavolo si allontanò da lui fino al momento
fissato”, volendo indicare che la lotta definitiva contro Satana e la vittoria
di Cristo si attua nella morte in croce e nella risurrezione della Pasqua.
Don Renzo Lavatori
La trasfigurazione permette ai
tre discepoli prescelti, Pietro, Giacomo e Giovanni, che saranno poi gli stessi
presenti all’agonia del Jetsemani, di contemplare la gloria del Figlio di Dio,
quella gloria che risplenderà per sempre dopo la risurrezione. Essa si pone
quindi come anticipazione della gloria Pasquale, per rendere manifesto il
disegno del Padre, che cioè attraverso l’umiliazione della morte, il Messia
viene condotto alla gloria, ovvero che l’annientamento del servo sofferente
costituisce l’attuazione della vittoria sul peccato e porta al possesso della
potenza divina.
L’autorevole dichiarazione, proveniente da Dio stesso: “Questi è il Figlio mio,
l’eletto; ascoltatelo!”, ci mostra in Gesù il vero Messia che va accettato,
soprattutto nella sua missione che prossimamente si consumerà a Gerusalemme con
la morte in croce e con la risurrezione. Tale missione, anche se appare
scandalosa e sconvolgente, tuttavia è l’espressione autentica della suprema
volontà divina; essa corrisponde al disegno salvifico del Padre. I discepoli
debbono credere e riporre in Gesù tutta la loro fiducia e speranza; Egli è il
Figlio Diletto, il servitore in cui Dio si compiace e il Profeta che devono
ascoltare e le cui parole devono essere messe in pratica, fino a condividere la
sua medesima sorte sulla via della croce.
Il significato di questo evento della vita di Gesù può essere raccolto in un
duplice aspetto: anzitutto la trasfigurazione rappresenta una rivelazione della
identità di Cristo quale Figlio di Dio, che possiede la gloria del Padre e con
il Padre viene glorificato. Tuttavia l’essere divino di Cristo è congiunto
intimamente al suo essere uomo, nella fragilità e nella sofferenza umana.
La morte in croce è il momento o l’ora suprema del suo annientamento, è
l’espressione massima della sua realtà umana, della condivisione della
situazione dell’uomo indebolito dal peccato. Proprio in conseguenza della sua
morte Gesù verrà esaltato e manifestato nella gloria
divina. Viene così indicato
il mistero dell’unità, in Cristo, dell’essere divino e umano: i due mondi non
solo non si oppongono, ma diventano compresenti e inseriti uno nell’altro. Ormai
Dio e l’uomo formano una sola realtà di presenza e di comunione sostanziale in
Cristo Gesù.
L’altro significato rivela il
piano divino: l’opera redentrice deve essere compiuta dal Figlio dell’uomo
attraverso la morte e la risurrezione. La trasfigurazione infatti è una
anticipazione dell’evento della risurrezione, per indicare che la morte non è
fine a se stessa, ma deve sfociare nella vittoria della vita sulla morte e
dell’amore sul peccato. Così viene congiunto il mistero del servo sofferente e
umiliato con la potenza e la gloria del Messia regale e vittorioso.
Si manifestano la suprema sapienza e l’amore infinito di Dio, che trasformano
ciò che è impotente nella potenza, ciò che è morto nella vita, ciò che è servo a
signore, ciò che è stolto a saggezza. Questa è la verità del messaggio e
dell’opera di Gesù che illumina l’esistenza cristiana e che dobbiamo accogliere
e vivere in questo tempo quaresimale: “Chi vuol salvare la propria vita la
perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia la troverà” (Mt 16,25).
Don Renzo Lavatori
L’odierno
Vangelo di Luca (Lc 13, 1 – 9) abbraccia due parti distinte ma vitalmente
collegate. Nella prima parte (vv. 1 – 5) Gesù si riferisce a due fatti
incresciosi accaduti in quel tempo: uno provocato dalla cattiveria di Pilato,
che aveva “fatto scorrere il sangue di alcuni Galilei insieme a quello dei loro
sacrifici”; l’altro derivante da una catastrofe, che fece “crollare la torre di
Siloe su 18 persone e le uccise”.
Ne segue la illuminante riflessione di Gesù per scoprirne il significato. Non si
tratta di un’azione né di una punizione divine, neanche può essere collegata ai
peccati, come se quei disgraziati fossero più peccatori degli altri. Invece i
due fatti costituiscono un pressante invito che deve toccare il cuore dell’uomo
e fargli ricuperare i valori fondamentali dell’esistenza e della fede; occorre
cioè la conversione, il pentimento e il ritorno a Dio per evitare lo stesso
drammatico destino.
D’avanti a tante sciagure umane e cosmiche, a cui assistiamo attoniti, ciò che
deve emergere non è solo un sentimento di compassione né tanto meno di accusa a
Dio, ma, molto più
profondamente,
sono eventi che scuotono l’animo per ritrovare con coraggio e concretezza la
strada di Dio e seguire i suoi insegnamenti, che conducono alla vita vera e
fruttuosa sulla terra e nell’eternità. Altrimenti facciamo tutti una misera
fine. Volere infatti instaurare una società e una umanità senza Dio significa
cadere nell’abisso dello sfacelo e della distruzione. Solo il Signore, Gesù
Salvatore, offre la luce, la grazia, l’amore per far rinascere l’uomo alla sua
dignità di Figlio di Dio e alla sua felicità imperitura.
La seconda parte (vv. 6 – 9) racconta la parabola del fico sterile, il quale può
avere due risvolti: lo sradicamento e il suo annientamento oppure l’aumento del
concime con la conseguente rivitalizzazione. Non basta la sola pazienza del
contadino né solo il concime, ma occorre anche la vitalità della pianta per
produrre frutta. Il senso parabolico è chiaro: il cuore umano inaridito e
infruttuoso è destinato alla morte; se invece si lascia irrorare dall’amore di
Dio e dalla sua grazia, può ravvivare e rendere la propria vita feconda di bene.
La finale delle due parti è unica e sostanziale: “Se non vi convertite, perirete
tutti allo stesso modo”.
Don Renzo Lavatori
Nella parabola di Luca (Lc 15,11 – 32), meravigliosa e sconvolgente la persona
del padre. La può accogliere solo chi è povero e si lascia amare, altrimenti
diventa impossibile, poiché l’amore si fa peso opprimente. Non sempre l’uomo è
in grado di intendere i gesti del padre, il suo intenerirsi, il correre incontro
al figlio scapestrato, stringerlo al collo e baciarlo. È incapace di accettare
quelle braccia spalancate in un gesto smisurato di perdono e di resistere alla
tentazione per ridurne l’ampiezza.
Anzitutto nei riguardi del figlio minore, il padre non fa resistenza alla
richiesta dell’eredità, ma lo lascia andare senza lamentele nè ammonimenti nè
ricatti. Dopo le amare esperienze, quando il figlio ritorna, lo vede da lontano.
Il sentimento che prova non è di rancore o di collera, ma di sincera compassione
per il figlio, finito in così grande penuria. Gli corre incontro. Per una
persona di una certa dignità è inconcepibile mettersi a correre, ma per il
padre, mosso dall’amore, ogni distanza deve essere superata al più presto, per
farsi prontamente vicino a suo figlio. Gli si getta al collo e lo bacia, come se
nulla fosse accaduto, senza un rimprovero, pur giusto e doveroso, senza un gesto
di rammarico o parola dura. Rivela la grandezza smisurata dell’amore che si
chiama misericordia. Nella contentezza del figlio ritrovato, il padre non gli
lascia il tempo di esprimere tutto quello che il giovane aveva pensato di dire.
Ascolta solo le parole che esprimono il sincero riconoscimento della colpa.
Quindi ordina
ai servi di rivestirlo. Lo adorna degli abiti nuovi, perché acquisti nuovamente
la fisionomia del figlio e torni a far parte della famiglia. È la generosità
dell’amore, che rinnova e purifica anche le cose più luride, trasforma e
vivifica anche ciò che è freddo e morto; l’amore vince su tutto e tutto redime.
Infine fa festa nella gioia di chi ama e gode solo nel godere dell’altro e nella
sua felicità. La gioia del figlio è la sua gioia e deve essere la gioia di
tutti.
Il padre dimostra uguale disponibilità verso il figlio maggiore da cui viene
giudicato e rimproverato, poiché la sua condotta esce dai limiti della
ragionevolezza. A un modo usuale di pensare sembrano giuste le rimostranze di
questo figlio, sempre fedele e ligio ai propri doveri, che tuttavia non conosce
il cuore del padre, non ne percepisce i palpiti più sottili, né tantomeno ne
condivide lo spirito. Eppure il padre esce a pregarlo con l’umiltà e la pazienza
dell’amore, che non condanna, ma fa ogni tentativo. Poi lo invita a fare festa
per il fratello ritrovato, superando ogni pregiudizio.
Il padre tende a conquistare il cuore del figlio maggiore e vorrebbe
comunicargli il proprio sentimento paterno, renderlo partecipe del medesimo
amore. Ma non è impresa facile da conseguire. L’uomo è portato a vivere da servo
più che da figlio, a svolgere alcuni servizi più che ad abbandonarsi
fiduciosamente nell’amore paterno. Solo se egli sa accogliere e vivere la realtà
cristiana dell’essere figlio di Dio; altrimenti ne resta fuori, portando nel
profondo di se stesso l’amarezza di un amore non vissuto, se pur desiderato.
Don Renzo Lavatori
Il brano di Gv 8,
1-11 racconta l’incontro di Gesù con una donna adultera. Interessante il
contesto in cui avviene l’incontro. Al centro sta la povera donna colta in
flagrante adulterio, denudata nella sua debolezza morale e nella sua miseria
sociale. Attorno a lei si ammassano gli accusatori, secondo i quali, in
conformità alla legge giudaica, essa deve essere condannata a morte per
lapidazione. Di fronte si pone Gesù, che esprime l’amore divino verso la
creatura umana bisognosa di perdono e di redenzione. Egli si china a terra per
scrivere, quasi per mostrare le disponibilità amorevole di mettersi a contatto
con la polvere della terra, di cui è composto l’essere umano. Resta misterioso
il contenuto di quella scrittura. Si può supporre che Gesù abbia tracciato la
nuova economia della grazia salvatrice e redentrice, proveniente direttamente da
Dio, di cui egli si fa strumento efficace e autorevole
L’adultera si trova tra due forze contrastanti: l’una della condanna causata
dalla legge, l’altra del perdono originato dalla divina misericordia. Chi ha il
potere di annientare la sua vergogna e ridonare alla donna la dignità perduta?
La legge mosaica possiede il ruolo di rivelare il peccato, di giudicarlo e di
condannarlo, ma non ha la capacità di dissolverlo. La grazia di Cristo invece
contiene la forza divina di distruggerlo e di riscattare l’uomo da quella
pesante schiavitù per donargli la libertà di essere nuova creatura e di vivere
non più soggetto all’oppressione della disfatta mortale, ma redento dall’amore
di Dio che lo rende suo figlio.
In quella donna adultera possiamo sentirci rappresentati tutti noi, esseri umani
miseri e abbruttiti dalla malvagità. Tutti, nessuno escluso: “Chi di voi è senza
peccato scagli la prima pietra contro di lei”. Gli accusatori si dileguano.uno
dopo l’altro. Lei, l’imputata, resta sola davanti a Gesù, con un duplice
atteggiamento: l’uno di timore per essere giustiziata nella consapevolezza del
proprio traviamento e l’altro di intima speranza per ottenere l’assoluzione a
causa della clemenza di quell’uomo particolare. Ha vinto quest’ultima
aspirazione. Alla presenza di Gesù, innocente e colmo di santità, il Figlio
eterno di Dio fatto uomo in tutto simile a noi eccetto il peccato, noi possiamo
essere perdonati e riscattati dalla cattiveria e dalla morte. L’azione
liberatrice di Cristo, morto e risorto, porta con sé propriamente lo sconfinato
valore di redimere l’umanità e trasformala in figlia amata da Dio il Padre. La
legge non ha tale potere, tuttavia aiuta a scoprire la nostra debolezza di
peccatori. Occorre perciò l’umiltà di riconoscere sinceramente la nostra miseria
e di accogliere gioiosamente il perdono divino che scaturisce dalla persona di
Cristo, per iniziare un cammino nuovo di bontà e di amore: “Va’ e d’ora in poi
non peccare più”.
Don Renzo Lavatori
Il Vangelo di Luca (Lc 19, 28-40) avverte che “Gesù camminava davanti a tutti
salendo verso Gerusalemme”. Gesù ormai è profondamente deciso di avviarsi al
compimento della sua missione, che avverrà a Gerusalemme la città santa. Proprio
là egli dovrà subire la più infamante delle sconfitte: soggiacere ad un giudizio
falso e arrogante, essere condannato a morte, portare la croce su cui sarebbe
stato inchiodato e innalzato in mezzo a due malfattori come il più grande dei
malfattori. Strano e paradossale destino! Eppure esso corrisponde puntualmente
al progetto sapiente e potente del Padre celeste, secondo quanto dicevano le
antiche profezie. Gesù ne era pienamente consapevole e ne aveva fatto la sua
totale adesione filiale senza alcun tentennamento o umano ripensamento.
Il suo incedere su di un puledro, mentre i discepoli lo osannano e lo acclamano:
“Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore”, riconoscendolo vero
Messia per Israele, fa capire che egli dimostra di essere l’inviato da Dio per
la salvezza del popolo. Non solo i discepoli, ma anche le pietre grideranno la
medesima ovazione. Tuttavia, dopo il suo ingresso trionfale, appare subito
l’affronto nemico che si avventa contro di lui per catturarlo. Gli amici e la
folla osannanti scompaiono; attorno a lui si fa un drammatico silenzio. É giunta
l’ora delle tenebre, l’ora della sua umana sconfitta.. Eppure egli è il Messia,
il salvatore e il redentore.
Questa la paradossalità della pasqua di Cristo: egli viene immerso
nell’annientamento e nell’abbandono da parte dei suoi, assalito dal tradimento,
aggredito dalle accuse menzognere e dagli insulti più umilianti, lacerato nel
corpo dalla flagellazione e dalla coronazione di spine, avvolto da una estrema
solitudine e umiliazione. Perché questo atroce indicibile dolore? Esso
costituisce il substrato vigoroso o il terreno fertile da cui spunterà
rigogliosa la vita e sprigionerà la liberazione totale e definitiva per una
umanità rinnovata. Com’è possibile un simile passaggio razionalmente
inconcepibile? Qui si rivela l’infinita potenza di Dio, il suo amore che sa
trasformare la morte in vita imperitura, la sconfitta in vittoria gloriosa, il
peccato nella grazia purificatrice. Lui solo, l’onnipotente Signore, può
effettuare un così sorprendente e meraviglioso processo di trasformazione.
Questo il senso profondo e vitale della pasqua, davanti al quale si resta con la
meraviglia nel cuore e insieme nella gioiosa consapevolezza che tutto si è
compiuto realmente ed efficacemente attraverso l’opera redentrice di Cristo, a
cui sia lode e onore nei secoli. Anche noi ci associamo ai discepoli per
acclamarlo e riconoscerlo nostro unico e vero Redentore e Salvatore.
Non va dimenticato che nessun discepolo può discostarsi dal cammino tracciato
dal Maestro, anzi è pressatamente invitato a restargli fedele fino all’ultimo.
Solo condividendo la sua passione e la sua sofferenza, anche noi parteciperemo
alla beatitudine della sua glorificazione. Non è facile, ma se restiamo avvinti
alla grazia e alla misericordia divine, in esse troveremo l’aiuto necessario
alle nostre deboli forze umane anche nei momenti più difficoltosi e dolorosi. Da
qui sgorga la speranza intramontabile della fede cristiana nella pasqua di
Cristo.
Don Renzo Lavatori
Il brano si articola in
due momenti: il primo (24,13-27) considera il cammino fisico e interiore che due
discepoli compiono per giungere alla fede piena nel Cristo risorto. Essi passano
dalla disperazione alla speranza, dalla delusione a una nuova attesa, dal buio
alla luce, da un cuore indurito e sfiduciato a un cuore che incomincia ad
ardere. Nel secondo momento (24,28-35) Gesù finalmente è riconosciuto dai due
discepoli allo spezzare del pane. I due momenti sono entrambi fondamentali e
necessari, in quanto uno non può esistere senza l’altro, per giungere a
un’autentica scelta di fede in Cristo morto e risorto.
Luca precisa subito il tempo e il luogo: si tratta del primo giorno dopo il
sabato, e della strada che va da Gerusalemme al villaggio di Emmaus. La vicenda
dei due discepoli è descritta tenendo conto delle circostanze concrete nelle
quali essa accade e che gradualmente permettono ad essi di riconoscere con
certezza Gesù risorto. Ciò sta a significare che le apparizioni sono esperienze
percettibili e autentiche, fatte da persone in piena coscienza di sé e
responsabili. Anche se del tutto singolari, in quanto manifestano il Cristo
risorto che esiste in una realtà non più terrena, con caratteristiche superiori
e gloriose.
I due, non avevano creduto all’annuncio della risurrezione fatto dalle donne; si
mettono così in cammino, con animo pensoso e triste. Mentre discutono, Gesù, il
risorto, in persona, si accosta e cammina con loro, si fa ad essi vicino. Ma “I
loro occhi erano impediti di riconoscerlo”. Non si tratta tanto di vederlo, ma
di “riconoscerlo”. Il loro desiderio di vedere Gesù è forte, ma non basta la
visione fisica, occorre ravvisare la sua presenza di risorto. Per i due
discepoli, Gesù è come non ci fosse, pur essendo in loro compagnia. Egli è vivo,
prossimo ad essi, ma per loro è come se fosse ancora morto.
I due raccontano allo sconosciuto quello che è capitato in quei giorni a
Gerusalemme e molto sinceramente fanno la confessione del loro stato d’animo.
Avevano riposto in Gesù le loro speranze messianiche, pensando che avrebbe
liberato Israele da tutti i nemici e avrebbe stabilito apertamente e
definitamente il regno di Dio. Invece è stato crocifisso e sepolto.
Gesù allora spiega che la morte in croce non manifesta il fallimento del Messia,
ma la sua incondizionata fedeltà a Dio. Il suo cammino redentivo non finisce con
la morte, ma attraverso di essa conduce alla gloria. Gesù si rivela Messia
proprio sulla croce, dove si manifesta la pienezza della potenza di Dio.
Nei vv.28-31 Luca
indica, ancora una volta, il luogo preciso Emmaus, e il tempo, cioè la sera
delle stesso giorno. I discepoli hanno invitato Gesù a fermarsi e lo pregano con
insistenza: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno è ormai in declino”,
mentre egli sembra voglia proseguire il cammino. Essi escono dalla loro chiusura
interiore, aprendosi all’accoglienza dell’altro, poiché si accorgono che il
giorno sta per finire e non è cosa buona proseguire il cammino nella notte. Non
pensano più a loro stessi, ma si preoccupano della situazione disagiata di quel
pellegrino, le cui parole hanno toccato profondamente il loro cuore. Non sono
più prigionieri del loro mondo interiore, ma si rendono disponibili a un nuovo
modo di pensare e di essere. Per questo Gesù accetta l’invito. Si siede a mensa
con loro e assume il compito di spezzare il pane.
Il gesto dello spezzare il pane non causa il riconoscimento di Gesù da parte dei
discepoli, ma ne è l’occasione. Essi, che avevano seguito Gesù sulle strade
della Palestina, avrebbero potuto riconoscerlo da molti altri segni. Se i loro
occhi si aprono proprio in quel momento, allo spezzare del pane, è perché Gesù
ha voluto così, egli ha deciso dove, quando, come manifestarsi. Quel gesto è uno
degli atti più semplici, anche banali, certamente comuni. Eppure ogni volta che
il vangelo ne parla, quell’atto provoca un grande risultato, una eccezionale
trasformazione. A questo punto “si aprono i loro occhi e lo riconoscono”. Non si
dice che lo vedono, ma che lo riconoscono. È l’evento della loro fede piena. Ma
in quell’istante Gesù scompare dalla loro vista. Venendo meno la visione
terrena, si apre una visione spirituale che fa riconoscere il Signore per quello
che veramente è e attua con lui un incontro di amore e di unità.
Una immediata reazione spinge i due a ritornare dai loro compagni per
testimoniare quanto avevano sperimentato. Essi partono subito per Gerusalemme,
nonostante l’ora tarda. Sono ormai gli annunciatori di Cristo risorto, senza
limiti né di tempo né di spazio, nella piena disponibilità di chi ha visto il
Signore e vive unito a lui. Ritornano pieni di gioia recando l’annuncio
pasquale.
Quando giungono trovano gli undici e gli altri; erano partiti lasciando un
gruppo di persone rattristate, ora costatano una comunità gioiosa: “Il Signore è
veramente risorto”. La testimonianza dei due, aggiunta a quella degli altri, è
un’ulteriore conferma che certamente Cristo è risorto ed è vivo.
Don Renzo Lavatori
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