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LA LIBERTA' DEL CUORE
Impressioni desunte dal Qohelet
Qualche anno fa, leggendo il Qohelet o Ecclesiaste , mi sono reso conto che lui,
il Qohelet, ha potuto scrivere un libro del genere solo perché uomo veramente
libero, insofferente di qualsiasi legaccio che tentasse di pigliarlo tra le sue
strette. Riga dopo riga, questa convinzione si faceva sempre più certa, fino a
pensare che “lo spirito di libertà” potesse essere il punto di sostegno di tutto
il libro, il vincolo di unità di tutti gli svariati argomenti, di tutti i
risvolti, anche contraddittori, che attraversano l’animo del Qohelet
[R. LAVATORI - L. SOLE, Qohelet. L’uomo dal cuore libero, Bologna
1997].
1. Il senso della libertà
A ben considerare, però, la libertà non è una conquista dello sforzo umano, non
è frutto del comportamento etico né il risultato di una ascesi; la libertà
risiede nel cuore dell’uomo, nel suo spirito o alito vitale. La libertà non è il
termine a cui l’uomo tende, ma è la fonte da cui l’uomo attinge il senso e la
gioia di vivere. Per questa ragione tra le pagine del Qohelet si da spazio, più
di quanto si possa immaginare, all’aspetto del godimento della vita, un tema che
torna in un crescendo di rimbalzi sempre più impetuosi. Ed è proprio la libertà
del cuore che consente di gioire tra le molteplici occupazioni e vicende che
tormentano l’animo umano.
La libertà è semplicemente il coraggio di accettare che tutto è dato e proposto;
che tutto è dono; il coraggio cioè di riconoscersi poveri in senso radicale;
poveri secondo il proprio modo di essere, di pensare, di amare; poveri in tutto
il proprio lavoro, riguardo a tutte le cose e i fatti che succedono sotto il
sole.
Oggi si fa un gran vociare sulla libertà, quasi fosse la conquista dell’epoca
moderna e la sua connotazione più espressiva, che nel liberalismo prima e poi
nell’individualismo o personalismo dell’occidente contemporaneo trova la sua
massima attuazione. Essa viene intesa soprattutto come la manifestazione della
soggettività umana in tutte le sue caratteristiche anche le più strane.
L’affermazione del super-io di fatto confonde la libertà con l’egotismo o, più
generalmente, con l’egocentrismo incontrollato.
D’altro verso è pur vero che l’uomo, dal profondo del proprio essere, anela
ardentemente verso la libertà e soffre di tutto ciò che lo soffoca e l’opprime e
gli impedisce di realizzare se stesso. La libertà può diventare un’attrazione
più forte della vita stessa, come cantano due celebri endecasillabi danteschi:
“libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta” (Purg
1,71-72).
Non è facile tuttavia essere liberi sul serio, anzi spesso non si capisce
neanche il senso della libertà in tutto il suo spessore e la sua espansione. Chi
può dirsi veramente libero, sciolto da ogni condizionamento che lo possa in
qualche modo costringere dal di dentro o dal di fuori?
L’uomo, che pur si dichiara di possedere la libertà, di fatto vive racchiuso tra
mille meccanismi di difesa, che lui stesso si è costruito e che formano la
struttura irrinunciabile dello spazio che lui ritiene vitale, ma che in realtà
non è altro che la sua prigione. Lì sta al sicuro, si sente protetto, crede di
poter dominare sugli altri e sul mondo, di ritenersi il giudice imparziale, ma
non si accorge, come un illuso, di restare schiavo della impalcatura che lo
circonda e lo attanaglia, dalla quale non vuole distaccarsi per la sensazione di
trovarsi denudato e confuso.
La sua difesa, di fatto, è scaturita dal bisogno di nascondere se stesso, di
mascherare la sua figura, di non accettare la verità. La verità inesorabile
della sua pochezza, della sua precarietà e miseria. Da qui l’inganno di vedersi
diverso da quello che realmente è. La menzogna, con cui copre se stesso, si
proietta sugli altri e sulle cose esistenti, misurandole con un criterio
fallace, quasi potessero diventare l’oggetto abbagliante da conquistare e da
possedere, mentre in effetti sono entità futili e frivole. Con la medesima
menzogna ricopre i propri ideali, i progetti ambiziosi della carriera, le grandi
concezioni di rinnovamento della società e della cultura, quasi nobili miraggi
dello spirito umano, mentre di fatto lo eludono dalla concretezza della vita,
dal senso della propria limitatezza e lo incatenano al surreale.
Solo quando il cuore umano fosse capace di scrollarsi di dosso tutte queste
sovrastrutture, annidate in esso in modo spesso viscerale e inconscio, allora
potrebbe intravedere la possibilità di una libertà autentica. Bisogna
riconoscere che è impresa non di poco conto buttar via tutto un bagaglio
interiore conquistato palmo per palmo con grande fatica. Ci si chiede poi quale
possa essere lo strumento che permetterebbe un tale sbaraglio di tutto; chi
potrebbe avere tanta forza da sventare una costruzione artificiale così
poderosa.
Lo strumento idoneo potrebbe essere quello offerto dalla verità; non la verità
astratta su cui discutono i filosofi, ma la verità più semplice, quella della
realtà, con cui ci si imbatte momento per momento, ogni volta che ci si incontra
e scontra con la vita, fin dal suo nascere. E’ questa verità che ridona all’uomo
il sapore di ricuperare il debole spessore del suo essere e delle cose che lo
riguardano, senza cedere agli inganni o alle illusioni; lo rende autenticamente
se stesso, libero di muoversi e di agire in conformità al proprio essere e
all’essere degli altri. La verità costituisce perciò l’anima della libertà e, in
questo senso, la libertà diventa l’essenza della verità, come annota Heidegger
(Von Wesen der Wahreit, Frankfurt 1954, p.12). Infatti la verità assoluta esige
dall’uomo un modo radicale di porsi, che forma la sua libertà; come, d’altro
canto, solo lo spirito libero può riconoscere la verità, senza paure né
schermaglie.
Non si tratta di un circolo vizioso, ma di un dinamismo salutare, di un moto
vitale.
È raro trovare una persona autenticamente libera. Ciò è vero per tutti i tempi e
per tutti gli uomini, ma non è errato pensare che in un mondo come l’attuale,
edificato per molti aspetti sull’effimero e l’inconsistente, sia arduo più che
mai vivere con uno spirito disponibile ad accogliere la realtà e critico nei
confronti dell’illusione menzognera. Basta accennare a certe elucubrazioni
fantasiose adottate dai mass-media. Dove è assente la verità, non può
germogliare la libertà. Quando si proclama importante ciò che è vano; quando si
fa risplendere di luce ciò che è misero; quando l’immagine sostituisce il reale;
quando la diffusione della notizia si fa regola per stabilire il vero e il bene;
tutto questo cozza contro ogni barlume di libertà. E tutto questo accade nel
nostro tempo, quando l’uomo crede di avere raggiunto un grado eccelso di
autonomia. Strano paradosso.
Da questo punto di vista la lettura del Qohelet potrebbe risultare di grande
attualità. Non solo perché indica la via maestra della libertà, ma, ancor più,
perché disincanta l’uomo contemporaneo dai bagliori delle cose fatue che
accecano pesantemente il suo cuore, per risvegliarlo al senso della realtà e
fargli ricuperare la gioia e il gusto di vivere.
2. L’animus del Qohelet
Non è facile un’analisi precisa e pertinente intorno al testo del Qohelet, sia a
livello letterale, poiché presenta molti termini incerti e discussi, sia
nell’aspetto redazionale, poiché non si coglie immediatamente l’unità discorsiva
né l’organicità logica. Anzi il pensiero appare spesso contraddittorio quasi che
un’idea antecedentemente sostenuta fosse successivamente negata, come se
rifiutasse ciò che prima aveva fortemente sostenuto. Sembra inseguire una
concettualità paradossale, nel senso che ogni cosa è vista nel suo fascino
seducente congiunto, tuttavia, alla sua inconsistenza deludente. Di fatto fa
crollare implacabilmente ogni possibile impalcatura mentale e mette in crisi
ogni sicurezza psicologica e culturale.
L’autore non è un “disfattista di professione”, ma piuttosto un sostenitore
dell’autenticità dell’animo umano, che non può lasciarsi imprigionare da alcuno
schema previo; deve soltanto rendersi pronto a cogliere la realtà così come essa
è, senza illusioni né rimpianti, senza amarezze né assolutizzazioni, ma con
tutto lo slancio interiore, che assapora e gode di ogni cosa, pur nella
tormentata consapevolezza del suo limite che la pone sotto il sole.
Il Qohelet è un amante dell’essere con tutto il suo splendore, che non resta
offuscato dalla sofferta constatazione che all’essere si accompagna
ineluttabilmente il non-essere. Il coraggio di restare saldo ad ogni costo sulla
certezza del limite esistenziale, che lo accompagna sempre e ovunque, nonostante
i contrasti e le delusioni, fa di lui “l’uomo dal cuore libero”, cioè veramente
saggio.
Il semplice studio della lettera non è spesso sufficiente per comprendere
l’animo dello scrittore e soprattutto nel caso del Qohelet, la cui composizione
letteraria risulta complessa e di non facile ermeneutica; tuttavia alcune
espressioni, collegate insieme, offrono un materiale assai ricco per ricavarne
il valore intrinseco, che manifesta lo slancio del cuore e le sue attitudini più
autentiche.
Non si tratta neppure di uno studio del suo pensiero, con lo scopo di
determinarne i concetti o le idee che lo guidano. Il libro del Qohelet non
contiene un’ideologia o una filosofia o un insieme di dottrine logiche, anzi
presenta una opposizione accanita contro ogni forma di idealizzazione o di
generalizzazione; rifiuta con forza le espressioni che si ammantano di
universalismo o di nominalismo o di gnosticismo in genere. Esso resta ancorato
alla realtà concreta, nella sua pregnanza e nella sua identità inconfondibile.
Occorre dunque andare al di là della lettera e del concetto, per cogliere
l’animus del Qohelet, il suo spirito più vero e genuino, la sua vitalità, il suo
dinamismo interiore, anche se non di immediato approccio. E’ necessario
comprendere il senso della vita che il Qohelet trasmette, mettersi in sintonia
con la sua anima. Egli infatti non si preoccupa di esporre alcune idee, ma di
far capire che cosa è la vita, come è fatta l’esistenza. Egli non parla in
astratto della sapienza, ma la comunica nel momento in cui è alle prese con
essa. Non svolge un discorso organico sulla gioia, ma la sente e la trasmette.
Non si dilunga a spiegare il concetto di libertà, ma la vive da uomo senza
vincoli e ne inculca il fascino.
Tutto questo pone all’erta il lettore al fine di collegare e porre al giusto
posto i diversi piani di cui si compone l’opera: la lettera, l’idea e l’animus o
lo spirito, senza lasciarsi condizionare dall’uno a discapito dell’altro e senza
confondere l’uno con l’altro, ma capendone la differenza insieme alla
complementarietà. Infatti la lettera costituisce lo strumento privilegiato per
esprimere un’idea, la quale, a sua volta, rivela un atteggiamento del cuore. E’
quest’ultimo che occorre afferrare quale elemento di unità che coordina
mirabilmente un aspetto all’altro, superando l’apparente contraddittorietà e
testimoniando una profonda coerenza interiore. Solo se si giunge là, nel cuore,
si può dire di capire veramente il Qohelet, di entrare in sintonia con lui e di
condividerne lo spirito. Allora non è questione soltanto di una lettura più o
meno attenta, ma di una percezione sensibile a tutte le movenze più recondite
che sfociano nella compartecipazione convinta ad una scelta di vita più che a
una accettazione di idee.
3. La sapienza dello spirito
Il Qohelet non
ragiona prendendo l’avvio da una filosofia dell’esistenza, ma dalla
constatazione di tutte le situazioni, buone e cattive, in cui si trova a vivere.
Egli parte dai fatti, che caratterizzano fortemente la sua esperienza, senza
tuttavia lasciarsi condizionare da essi. Possiede tutto, ma è convinto di non
aver nulla; si diverte ed è triste; ama e insieme sa di non amare; lavora con
passione ed è nauseato del suo lavoro; ricerca la sapienza e si considera alla
stregua dello stolto; desidera vivere, ma ha sempre presente la realtà della
morte.
Tutto questo non lo conduce a un atteggiamento disincarnato o idealista, al di
fuori della realtà, né a un puritanesimo formalista che rifiuta il male per
scegliere sempre il bene. Al contrario egli è inserito vitalmente in tutti i
momenti dell’esistenza umana, poiché questi costituiscono la realtà e dunque la
vita, l’essere e l’agire dell’uomo, cioè il valore più pregnante e ricco. Non
può assolutamente distaccarsi da essi, tuttavia non ne resta coinvolto in modo
totalizzante e dispersivo, come se ogni momento fosse il tutto e non esistesse
altro. Egli sa invece che a un tempo succede un altro tempo, con la stessa
ferrea consequenzialità della vita che si sviluppa e si manifesta nelle sue
molteplici sfaccettature. Nessuno di quei momenti lo condiziona, anche se ognuno
comporta una sua propria e irrepetibile consistenza, che non va rigettata né
disprezzata.
Similmente non si può dire che sia un gaudente dei beni materiali, un amante dei
bagordi come un epicureo, perché non è preso dal godimento dei sensi come
fossero l’unica soluzione ai mali del mondo; egli scopre che anche questo
costituisce una vanità e tuttavia ne gioisce pienamente e ne gode.
Né si può dire che sia un uomo di facile appagamento, alla ricerca della misura
di mezzo o di un equilibrio instabile, in modo da realizzare così un certo
compromesso. Appare invece un uomo dalle scelte radicali e inequivocabili,
consapevole fino all’estremo della vanità delle cose e dei fatti.
Non è pertanto un superficiale o un insensibile che sorvola sui problemi e non
si lascia toccare da essi, non un egoista, che considera gli eventi soltanto dal
proprio punto di vista o per il proprio interesse, perché si compromette
francamente, si impegna con tutte le sue forze, si butta alla conquista,
constatando anche il fallimento e la inettitudine. Li accetta come elementi
costitutivi della vita senza esserne deluso o impedito di agire ancora.
E’ un uomo libero, cosciente dei limiti di ogni realtà che pur apprezza e ama,
nella gioia di non lasciarsi condizionare da alcunché, ma di sapere che tutto va
oltrepassato, superato e che da nulla può essere dominato e posseduto o disperso
e dilaniato. In tal modo non strumentalizza le cose come mezzi per la sua ascesi
o per la ricerca della sapienza, usandole quel tanto che basta per un efficace
risultato; egli rispetta ed elogia ogni cosa nell’autenticità della propria
autorappresentazione e nel suo darsi all’uomo, affrontando gli urti e gli enigmi
che essa presenta nel complesso scenario del mondo.
Nell’ambito di questo spirito libero si acquista la sapienza, cioè
l’atteggiamento interiore che porta a considerare e vivere nel giusto senso
tutte le situazioni che si presentano nella vicenda umana. La sapienza conosce e
assume ogni realtà, anche la più piccola e insignificante, persino quella che
porta con sé i segni della negatività e del male. Si inserisce in essa e ne
condivide la condizione. La vive pienamente senza tuttavia consumarsi in essa ed
essere confusa con essa, senza disperdersi o vanificarsi in essa. Poiché sa con
certezza che tutto è vanità; proprio questa consapevolezza la libera da ogni
vanificazione di sé e da ogni inganno illusorio.
Si stabilisce così un mirabile rapporto tra la luce della sapienza e la caligine
della vanità in modo che la vanità resta vanità senza possibilità di essere
soppesata di più di quello che vale e la sapienza conserva la sua inalterata
capacità di discernimento senza cadere in compromessi fallaci. La sapienza,
infatti, riconoscendo la vanità nella sua consistenza di vanità, la assume e in
un certo senso la nobilita e la illumina del suo chiarore per farla risplendere
in tutto il suo essere niente: ne coglie cioè la vanità. In questo modo la
vanità viene elevata fino ad essere partecipe della sapienza, viene cioè posta
nel suo giusto modo di essere, ritrova se stessa con autenticità.
Raggiungere questo significa possedere la piena libertà del cuore.
La libertà comporta due aspetti: uno negativo, che consiste nella liberazione da
condizionamenti o stati di schiavitù causati da alcune situazioni esistenziali,
dalle quali l’uomo si è lasciato dominare come fossero degli assoluti a cui
doversi sottomettere; uno positivo, dato propriamente dall’atteggiamento di
libertà della persona umana, che conserva la propria identità pur nella
relazionalità agli altri esseri. L’identità personale non può chiudersi in se
stessa, cadendo in una sorta di solipsismo o egoismo; per essere autenticamente
se stessa, deve rapportarsi ad altre realtà fuori di sé. Tuttavia la
relazionalità verso gli altri non può annientare l’identità di sé. I due aspetti
si armonizzano e non si contraddicono, anzi uno non può stare senza l’altro, ma
non si annullano.
La sapienza del Qohelet attua questa armonia nel senso che si libera dai
condizionamenti esteriori, perché riconosce la vanità di ogni evento posto sotto
il sole e perciò non assolutizza alcuna cosa da cui essere dominato. Nel
medesimo tempo si pone in profonda relazione con tutto ciò che avviene,
sapendone cogliere la bellezza e la gioia che lo spingono a vivere e ad agire
vigorosamente, pur sentendone il peso e la fatica.
Questo spirito può far luce circa il suo atteggiamento di fronte alla donna, nei
discussi e complessi passi che riguardano tale argomento. Sembra che l’autore
non voglia essere condizionato dalla donna e ne riconosce le insidie seduttrici,
quando afferma: “Trovo che amara più della morte è la donna, la quale è tutta
lacci: una rete il suo cuore, catene le sue braccia” (7,26). Tuttavia non
disprezza l’amore coniugale, anzi ne assapora la gioia e invita a goderne: “Godi
la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua vita fugace (e) che
(Dio) ti concede sotto il sole” (9,9). Da una parte non si lascia incatenare dai
legami carnali, che potrebbero avvincerlo come accade al peccatore/fallito;
sfugge alla loro stetta, recuperando una sana libertà del cuore, caratteristica
di “chi è gradito a Dio”. Dall’altra partecipa gioiosamente all’intimità
dell’amore sponsale, considerato un aspetto decisivo della vita e un bene da non
perdere tra le pene sofferte sulla terra.
Questi due elementi, quello della liberazione e quello della relazionalità,
presi insieme, formano la struttura della libertà interiore, che costituisce
certamente l’aspetto più nobile dell’animo del Qohelet, la sua grandezza
spirituale, la sua perenne validità, l’attualità del suo messaggio. In fondo
egli ha saputo vedere con chiarezza e coerenza, nonostante i turbamenti e le
contraddizioni della vita, che sotto il sole o sulla terra o sotto il cielo
l’essere convive con il non-essere, la vita con la morte, la gioia con la
tristezza. Non vi è opposizione per il Qohelet tra i due termini secondo
l’interrogativo amletico: essere o non-essere ma perfetta consonanza, pur nella
incapacità di comprenderne il senso totale. Riconosce di essere pienamente
coinvolto nelle cose terrene, ma non di essere travolto da esse; di essere
impegnato nel lavoro, ma non di essere schiacciato da esso; di essere pronto ad
abbracciare e di astenersi dagli abbracci; di partecipare ai godimenti della
vita, ma non di essere impedito al pianto; di esistere nel mondo ma non di
essere padrone del mondo.
4. Essere e non-essere
Essere e non-essere. Questa è la realtà propria di ogni creatura che esiste
sotto il sole; questa la sua intima costituzione, la sua determinazione
limitata. Nessun ente sulla terra può presumere di esserne esente e di ergersi
come illimitato e infinito. Capire questo e viverlo costituisce la radice di un
autentico e sereno distacco, che fonda ogni atteggiamento di libertà del cuore;
distacco, che non significa astrazione ed evanescenza né disprezzo o rifiuto, ma
semplicemente la consapevolezza che tutto ciò che esiste, pur essendo
apprezzabile, non può pretendere la garanzia di assolutezza e di pienezza. Tutto
ricade sotto il segno della vanità.
La constatazione della compresenza dell’essere e del non-essere riguarda
l’esperienza di ciò che esiste sotto il sole, degli esseri che vivono sulla
terra; essa non tocca l’essere che sta al di sopra del sole e vive nel cielo. Il
principio supremo della vanità resta circoscritto alla sfera terrena: non
raggiunge l’ambito divino. Anzi la sottolineatura insistente del limite posto da
ciò che sta sotto il sole, fa pensare a ciò che sta sopra di esso, come ad una
realtà totalmente diversa. Là, nell’essere trascendente di Dio, solo là esiste
un valore assoluto, non toccato dalla vanità. Questo il Qohelet non lo dice
espressamente, ma lo lascia intravedere. Il riflesso di Dio, in effetti, si
riscontra nei bagliori di bene e di gioia che appaiono tra le fatiche e le
imprese umane, come semi o segni di una vita, che pur esiste anche se dispersa
nei fugaci giorni e di un senso, che tenta di far capolino tra i tanti non sensi
di cui è ricoperto il mondo.
Pertanto la sapienza su questa terra deve tenere uniti questi aspetti diversi e
collegati: la presenza di un unico assoluto che è Dio; la constatazione che
tutte le cose che sono sotto di Dio possiedono il valore dell’esistenza, ma non
sono un assoluto, esse cioè sono relative, passeggere, vane; la conseguenza
ineluttabile è che nessuna di queste cose fugaci può assumere un valore assoluto
e in ciò sta la verità sapienziale. Se si assolutizza una di queste realtà,
anche la più nobile ed elevata, si cade nell’inganno, cioè nella stoltezza.
Questi concetti non hanno tanto un significato teorico o filosofico concernente
l’ambito intellettuale; esprimono piuttosto convinzioni interiori, che
costituiscono una certezza del cuore, una consapevolezza esistenziale, che
accompagna tutti gli stati d’animo e si incarna in tutte le situazioni e le
difficoltà in cui l’uomo si trova a vivere. Si tratta di una presa di coscienza
stabile e duratura nell’animo del sapiente, cioè di uno spirito o di una
mentalità che orienta tutta il suo modo di pensare, di vedere le cose, di amare
e di operare. Tutto viene vissuto secondo questo atteggiamento profondo, cui
nessuno può porre condizioni o sopraffazioni. Ciò costituisce l’intima pace del
cuore, la ragione di ogni autentica libertà interiore.
La pace del cuore non va confusa con quella forma ascetica definita come “quiete
dei sensi”, la quale conduce a una certa insensibilità o a una mancanza di
passionalità, in modo che l’animo umano non sia raggiunto da qualsiasi emozione
fisica e psichica e possa così restare del tutto impassibile (apateia), anche
davanti alle situazioni più sconvolgenti.
Né tantomeno la pace del cuore può identificarsi con quello stato psicologico
chiamato “quieto vivere”, che non si lascia turbare né coinvolgere da alcunché,
ma si fa indifferente a tutto; privo di sentimenti; incapace di produrre la pur
minima reazione dell’animo e che spesso si trincera dietro una durezza
inscalfibile.
Non si tratta di questo. Nell’animo del Qohelet risuonano intensamente le
vibrazioni provocate sia dalla sua emotività e perspicacia sia dalla
complessità, alle volte sconcertante, delle circostanze della vita. Egli vi è
dentro in pieno, fino quasi alla lacerazione della carne e al tormento dello
spirito. Ne sente tutto il peso e vi partecipa con passione; ne discute
animatamente; ne rimane impressionato e come disorientato. Ma non distrutto. Il
suo sguardo non si lascia allucinare, il suo cuore non ne resta sedotto.
Sperimenta ogni volta la drammaticità del senso e del non senso delle cose, come
una verità più grande della sua intelligenza e una reità più forte del suo
volere, ma non per questo meno significativa, anzi a ragione della sua
irraggiungibilità essa fa risplendere maggiormente la vanità di ciò che vive
sotto il cielo.
Questa presa di coscienza acquieta l’animo e lo slega da ogni appesantimento,
donandogli la sapienza del cuore, con cui vede e sente ogni cosa, senza
chiudersi in un comodo quietismo o effondersi in un insulso efficientismo.
La conquista di questo stato d’animo, cioè il possesso della sapienza, rientra
anch’essa nell’ambito delle cose esistenti sotto il sole e non può, perciò,
essere assolutizzata quasi fosse il valore sommo su cui l’uomo troverebbe
finalmente la sicurezza del suo essere in un posizionamento di compiaciuta
perfezione. La sapienza umana è intrisa anch’essa di vanità, poiché il sapiente
e lo stolto hanno la medesima sorte. Ciò significa che l’anelito verso la
sapienza è un aspetto dell’esistenza, un aspetto encomiabile, ma esso stesso è
determinato dalla limitatezza propria di ciò che compone l’orizzonte terreno;
non può arrogarsi il privilegio dell’onniscienza. Infatti il vero sapiente sa di
non sapere, similmente allo stolto che non sa; è cosciente della fugacità delle
sue conoscenze e della precarietà delle sue conquiste. D’altronde la sapienza
non costituisce il tutto dell’uomo, poiché la vita umana abbraccia anche
l’ignoranza, la passione, l’amore, la delusione, la fatica, la morte.
Il Qohelet dunque non si posiziona neanche sulla sapienza, non si lascia legare
neppure da essa e conserva anche nei suoi confronti un interiore stato di
libertà.
Ciò non lo conduce al relativismo, la posizione di colui che non dà valore a
nessuna cosa; egli al contrario apprezza ogni cosa per ciò che essa merita, la
pone al giusto posto, la comprende nella sua vera dimensione, spogliandola da
ogni inganno di sopravvalutazione o di disprezzo. Differentemente dal
relativismo, l’atteggiamento del Qohelet è quello della relazionalità, nel senso
che si pone in stato di accoglienza e condivisione, quando vale la pena vivere
una realtà e di liberazione e di distacco, quando la realtà perde la sua
valenza. E come si sa, ogni cosa esistente sotto il sole è composta di essere e
di non-essere, di significanza e di inutilità. Si tratta di mantenere viva
questa consapevolezza.
5. L’atteggiamento interiore
L’atteggiamento
del Qohelet non è dettato dal pessimismo poiché gode della vita, elogia la
giovinezza, la ricchezza, la sapienza. Tuttavia il suo animo non è assorbito da
queste cose né si immerge totalmente in esse, quasi disperdendo se stesso. Egli
ritrova sempre il coraggio di riconoscere che tutto è vanità, conservando la
propria autonomia interiore. In effetti il suo è profondo realismo, non privo di
sano ottimismo che lo apre alla speranza, all’incoraggiamento, a vivere fino in
fondo, a godere di quello che gli è concesso. In questo senso non lo si può
neppure considerare un nichilista o uno spirito distruttivo del reale, poiché
vuole essere pienamente cosciente di tutto e condividere ogni evento con
passione.
Il suo animo non è rattristato da un senso di nostalgia senile o melanconia
temperamentale, propria dell’uomo che oramai ha terminato il suo cursus e si
rassegna a malincuore alla solitudine; sente il peso della vecchiaia con
l’indebolimento delle forze, l’offuscamento della mente e l’incapacità di fare
ciò che vuole. Certamente il Qohelet si rende conto, non senza tremore e timore,
del passare inesorabile del tempo, del suo invecchiamento, ma si sente tuttora
vivo e ricercatore infaticabile della sapienza, apprezzatore delle sue
conquiste, da un verso senza rimpianti e, dall’altro, senza la illusione della
continuità delle sue opere dopo di lui.
Per questa ragione non rimpiange il passato, quasi fosse migliore del presente,
poiché non esiste più; non esalta il futuro che ancora non c’è e potrebbe essere
peggiore del presente; vive intensamente il momento attuale, non perché nuovo
rispetto al passato (nihil novi sub coelo), né perché ha paura del futuro verso
cui si incammina, ma perché è conscio della sua precarietà, della vanità che lo
segna e proprio per questo quel momento va colto o non è più. Ciò è motivo di
intima letizia e di grande libertà.
Non si trincera neppure dietro le opere della giustizia o della legge, quale
appannaggio della propria autoaffermazione, perché sa che al posto del diritto
c’è l’iniquità e al posto della giustizia c’è l’empietà. Egli ha visto empi
venire condotti alla sepoltura con grandi onori, mentre coloro che hanno operato
rettamente sono dimenticati. Né la giustizia né la legge, praticate dagli
uomini, assurgono a valore supremo; neanche esse possono incatenare il cuore
dell’uomo. Solo il timore di Dio sazia la sete di felicità e allontana ogni
delusione.
Il Qohelet raggiunge qui la massima espressione della purezza d’animo, che si
distacca dalla forza autorevole della legge, non per non praticarla come fa
l’empio, ma per non restarne imprigionato, come avviene per il legittimista.
Anche la legge ha i suoi limiti; anch’essa porta con sé una parte di non-essere
e perciò non può identificarsi con l’essere tout-court. Infatti sopra la legge
sta il timore di Dio. Questo tocca le corde del cuore e le muove nella verità
del proprio essere, mentre la legge si ferma alle opere che si compiono sotto il
sole, marcate dalla vanità.
Un atteggiamento ardito e nuovo, in un mondo, come quello giudaico, intriso di
legalismo, un atteggiamento profetico che anticipa la libertà instaurata con
l’alleanza messianica.
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