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TEMPO QUARESIMALE
Nel tempo quaresimale don Renzo ha svolto 4 incontri di lectio biblica su alcuni brani del vangelo di Marco che illustrano il cammino di Gesù verso Gerusalemme in attesa della sua passione e morte.
L’impatto tra il fulgore divino e lo sgomento umano
Mc 9,2-13
2Dopo sei giorni Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni
e li conduce su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro,
3e le sue vesti divennero splendenti, bianche assai,
che nessun lavandaio sulla terra può renderle così bianche.
4E fu visto da loro Elia con Mosè, ed erano in colloquio con Gesù.
5Allora Pietro, rispondendo, dice a Gesù:
“Rabbi, bene è che noi siamo qui;
faremo tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia”.
6Non sapeva infatti cosa rispondere, poiché furono spaventati.
7Allora ci fu una nube che li adombrò e ci fu una voce dalla nube:
“Questi è il Figlio mio, l’amato; ascoltate lui”.
8E improvvisamente, guardandosi attorno,
non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro.
9Mentre essi scendevano dal monte, ordinò loro
di non raccontare a nessuno le cose che avevano visto,
se non quando il Figlio dell’uomo sarebbe risuscitato dai morti.
1. Il legame tra l’umiliazione e la glorificazione
All’eclatante annuncio della disfatta del Figlio dell’uomo con la condanna a morte e con la risurrezione, e di riflesso davanti all’impegno di seguirlo per i suoi discepoli, è legittimo chiedersi se ciò corrisponda veramente al disegno di Dio. Pertanto è indispensabile una conferma che provenga dalle antiche autorità e dallo stessa sfera divina. Proprio con l’evento della trasfigurazione sul monte si riscontra una tale dimostrazione, con lo svelamento sul senso della figura della missione di Cristo.
Il testo biblico si avvia con l’indicazione di tempo: “Dopo sei giorni”, con lo scopo di unire ciò che avviene prima a ciò che sta per accadere sul monte. Alla precedente confessione di Pietro sull’identità messianica di Gesù, fa seguito e si aggiunge la precisazione di Dio che dalla nube lo indica quale suo Figlio e invita i discepoli ad ascoltarlo. L’episodio quindi non chiarifica soltanto la sua missione terrena, quale ultimo inviato di Dio, ma anche fa luce sul suo rapporto verticale di figliolanza divina. È quanto l’autore aveva indicato all’inizio del suo Vangelo (1,1), dicendo che Gesù è Messia e Figlio di Dio.
Inoltre l’esperienza della trasfigurazione si riallaccia al brano precedente per illustrare il cammino di morte e risurrezione del Messia. I discepoli sono già stati richiamati e invitati a portare la croce per seguire il maestro. Devono ora essere condotti a fare l’esperienza della gloria celeste, che si manifesta in Gesù davanti ai loro occhi. L’annuncio della “molta sofferenza”, del rigetto e della morte e risurrezione del Figlio dell’uomo, li ha trovati disorientati e impreparati, restii ad accettare un simile discorso, incapaci ad accogliere il piano divino così diverso dalla loro mentalità. Per superare tale scandalo e aprire gli occhi alla fede nella missione del Messia sofferente, Gesù è manifestato dal Padre nella gloria della sua divinità con la trasfigurazione.
Ai tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, prescelti in seguito ad essere presenti all’agonia del Getsemani, è dato di contemplare la gloria del Figlio di Dio, quella gloria che poi risplenderà per sempre dopo la risurrezione. La trasfigurazione si pone così come anticipazione dell’evento pasquale, per rendere manifesto il disegno del Padre, che cioè attraverso l’umiliazione della morte il Messia è condotto alla sua glorificazione.
Gesù prende l’iniziativa e assume (paralambanō) tre apostoli, separandoli dagli altri dodici, poiché vuole offrire solo a loro un’esperienza che inciderà profondamente in essi, anche se per il momento non la possono esternare, ma solo in seguito, dopo che il Figlio dell’uomo sarà risuscitato dai morti. Secondo l’evangelista, i tre sono stati scelti in precedenza per essere presenti alla risurrezione della figlia di Giairo (5,37). In quella occasione si era rivelato il potere di Gesù sulla morte, la quale aveva annientato una fanciulla di dodici anni nel pieno della sua vitalità. Anche ora vi è uno stretto collegamento tra la debolezza mortale di Cristo e la sua potenza vincitrice della morte.
2. L’esperienza divina sul monte
Il maestro conduce i tre “su un alto monte”, non tanto per il bisogno di solitudine e di preghiera. Nell’AT la montagna è il luogo della rivelazione divina per eccellenza, il trono su cui risiede e si manifesta Jhwh. Sul Sinai Mosè incontra Dio e riceve le tavole della legge; anche Elia vi sale in quanto profeta perseguitato, vi si rifugia e lassù incontra il vero Dio per ricevere nuovi incarichi. Pertanto Gesù vuole far entrare i tre in una dimensione che li pone in contatto con Dio e con la testimonianza che il Padre darà in favore di Gesù dichiarandolo suo Figlio.
Giunti sul monte inizia una prima rivelazione, non preceduta da alcuna preparazione. Il testo afferma repentinamente che Gesù “fu trasfigurato”. Il verbo, posto al passivo (metemorphōthē), allude all’azione divina. Solo Dio può operare una trasformazione così sublime e folgorante, che non ha alcun paragone di confronto. Marco lo sottolinea con sagacia, facendo riferimento all’azione umana di un lavandaio, che tuttavia non riesce a rendere così bianche le vesti risplendenti di Gesù. Ne deriva che egli non è soggetto ad alcuna azione umana, ma è immerso nella sfera divina.
In effetti le sue vesti, data la loro luminosità, splendono di una bianchezza ultraterrena, tipica degli esseri celesti che appartengono al mondo divino. Gesù così contrae un aspetto sovraterrestre.
Questo suo fulgente modo di essere si svela “davanti a loro”, rendendosi visibile agli occhi dei tre discepoli, sotto le sembianze che egli possiederà definitivamente con la risurrezione, quando la sua realtà carnale sarà resa pienamente partecipe della vita di Dio. Si tratta propriamente di una epifania. In Cristo si palesa in modo pieno la presenza della potenza e della santità divine. Quella gloria, che Gesù aveva annunciato per la fine dei tempi, quando il Figlio dell’uomo sarebbe venuto con gli angeli nella maestà del Padre suo (8,38), ora è anticipata ed è realmente vista dai tre discepoli. La trascendenza divina lo avvolge tutto e lo trasfigura, non come semplice riflesso, ma come lo splendore che rivela il suo stesso essere, la sua persona, la sua divinità.
Tuttavia la realtà divina di Cristo, manifestata per intervento del Padre, è congiunta intimamente al suo essere umano, delineato dalla fragilità e dalla sofferenza. La trasfigurazione infatti si interpone nel momento in cui Gesù annuncia la sua passione e si avvia a Gerusalemme per essere messo a morte. La sua povertà e debolezza umane sono immerse nella gloria divina, in modo che le vesti riflettono e trasmettono quella luminosità trascendente. Dio e l’uomo formano una sola realtà di presenza e di comunione sostanziale in Cristo Gesù.
Non si può intendere la trasfigurazione come una trasformazione dell’essere umano nell’essere divino, né di un processo di divinizzazione, né di un’ascesa verso la perfezione. Si tratta bensì dell’irruzione della realtà divina ed escatologica nel Cristo.
3. Due illustri personaggi con Gesù
Il testo evangelico prosegue: “E fu visto da loro Elia con Mosè, ed erano in colloquio con Gesù” (v. 4). Il fatto che i due uomini sono “visti” significa che provengono dal mondo divino e si rendono visibili. I discepoli sono solo recettori dell’apparizione, in quanto gli occhi umani per se stessi sono incapaci di riconoscere la loro identità, se questa non viene mostrata. Il senso della loro presenza conferma agli occhi dei discepoli che Gesù appartiene al mondo celeste e condivide la situazione dei due grandi personaggi che Dio aveva inviato al suo popolo. Gesù si situa lungo la loro missione ed è addirittura come il più grande e atteso realizzatore di tutte le speranza d’Israele. Per questa ragione i due sono ritratti a colloquio con Gesù e non con i discepoli, per porre in evidenza che egli si trova su di un piano diverso in altezze elevate accanto ai due uomini di Dio.
Il ruolo che qui è attribuito a Mosè e a Elia si riscontra nel resto del Vangelo di Marco, il quale aveva raccontato più volte le diatribe degli scribi contro Gesù, infaticabile e autorevole maestro, considerato però sovvertitore dell’antica legge (cap. 2). Al contrario ora Mosè sta in compagnia di Gesù e parla con lui, indicando una comune intesa e un ritrovarsi assieme nella prospettiva della salvezza a favore del popolo d’Israele. Ogni opposizione tra i due cade istantaneamente.
Circa la figura di Elia l’evangelista aveva riportato due volte l’opinione della folla (6,15; 8,28), secondo la quale Gesù poteva essere identificato al profeta, vedendo in lui l’avvento di Elia, preannunciato dalle Scritture, per preparare la venuta del Signore. Tale opinione tuttavia non coincide con la realtà, in quanto Gesù non può essere confuso con Elia che deve venire, poiché ambedue sono lì presenti e conversano amichevolmente l’uno con l’altro.
Inoltre Mosè ed Elia rappresentano le due figure dell’AT legate al monte Oreb o Sinai. Mosè ricorda la conclusione del patto tra Dio e Israele e rimanda conseguentemente al dono della legge; Elia indica la lotta dei profeti perché il popolo d’Israele rimanesse fedele all’alleanza. La presenza di Mosè e di Elia vuole significare che su questa montagna, come nuovo Sinai, in virtù di Gesù si sta compiendo la salvezza definitiva. La legge e i profeti, da essi rappresentati, confermano l’attuazione in Cristo del piano di Dio; in lui tutta la storia e le istituzioni di Israele trovano il loro compimento; in lui si realizza il nuovo esodo, la nuova definitiva pasqua.
La visione perciò acquista una concezione ampia e significativa soprattutto in riferimento a Gesù, rivelato non solo nel suo splendore personale, ma anche nella luce del compimento del progetto salvifico di Dio. Sotto tale aspetto si riscontra di nuovo uno stretto collegamento al primo annuncio della passione e morte del Figlio dell’uomo come un inserimento necessario nel piano divino. Le antiche Scritture, autorevolmente simbolizzate da Mosè ed Elia, stanno ad attestare precisamente tale mistero insondabile della divina volontà e della sua imperscrutabile sapienza. Nulla vi si può opporre né nulla può ostacolare l’attuazione. Veramente si resta avvinti e folgorati da tale immensa luce che si diffonde non solo sul Cristo, ma ancora più fortemente sui tre veggenti. Sono essi che ne devono prendere coscienza, pur avvolti nel disorientamento e nello stupore.
D’altronde tutto corrisponde ed è anticipato, quasi letteralmente dal testo di Malachia, dove si legge: “Terrete a mente la legge del mio servo Mosè, al quale ordinai sull’Oreb statuti e norme per tutto Israele. Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore, perché converta il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri; così che io, venendo, non colpisca il paese con sterminio” (3,22-24).
4. Il coinvolgimento attonito di Pietro
Alla prima luminosa rivelazione segue immediata la reazione di Pietro e dei suoi compagni. Non viene sottaciuto lo sgomento: “Furono spaventati”. Il turbamento afferra tutti tre i discepoli, sebbene solo Pietro azzardi a parlare. Marco menziona lo spavento in connessione con il primo momento epifanico, come un fatto repentino e spontaneo.
Tale timore può essere interpretato come l’effetto di una manifestazione soprannaturale, che produce uno sbigottimento. I tre si trovano a contatto con una realtà sovrumana, di cui il loro timore mostra che ne sono stati intimamente avvinti. D’altra parte esso scaturisce ogni volta che la creatura umana s’imbatte con una entità proveniente da di fuori del mondo terreno e spesso impedisce di connettere, obbliga alcune volte al silenzio e altre volte a parole banali senza senso, come in questo caso. Infatti Pietro sembra smarrire la razionalità. Si fa avanti e dice: “Faremo tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia” (v. 5c). Ma ha forse senso costruire tre tende di fattura materiale per tre esseri viventi nella dimensione celeste e gloriosa?
Al di là di tali induzioni, è lecito intravedere nel timore il segno di una estraneità, di una distanza, se non addirittura di una contrarietà tra il progetto di Dio e quello dell’uomo, tra quanto Dio e Gesù intendono attuare e la limitata comprensione dell’intelletto umano, ristretto entro una visione immanente e terrena. Occorre superare tale spazio, colmare l’intervallo e la discrepanza tra i due mondi, per sovrastare l’interiore paura. Altrimenti resta arduo per il cuore umano non solo l’accettazione della verità divina, ma ancor più la sua attuazione concreta e sconvolgente.
Ciò si vede dalle affermazioni impulsive e subitanee di Pietro, che chiama Gesù con il titolo di “rabbi”, termine riservato ai dottori della legge e che in Marco compare qui per la prima volta. Certamente Gesù è il maestro e come tale va riconosciuto e a lui va prestata attenzione nel momento in cui insegna. Tuttavia proprio sul monte della trasfigurazione i tre seguaci apprenderanno che il Cristo è altamente superiore a tanti maestri, come agli scribi o ai dottori. Egli sarà rivelato da Dio quale suo Figlio e per tale ragione dovrà essere ascoltato in maniera assoluta e piena.
Pietro attesta inoltre: “Bene è che noi siamo qui” (v. 5b). La frase può essere interpretata secondo due prospettive. In una prima esplicazione Pietro esterna la propria felicità (kalos nel significato di “bello”), provocata dalla singolare situazione che sta vivendo. Insieme propone a Gesù di erigere tre capanne con il desiderio di rendere permanente quell’esperienza. A tale scopo vorrebbe sollecitare quei personaggi a restare lì, trasfigurati e meravigliosi, esposti all’ammirazione sua e dei suoi compagni, per essere avvolti per sempre in quell’evento d’intensa beatitudine. In questa ottica le parole di Pietro sembrano contrapporsi al senso di quanto Gesù aveva detto sul cammino verso la croce per raggiungere la risurrezione. Invece Pietro ripropone l’idea di rimanere fermi, perché “è bello” quanto i discepoli stanno ammirando.
Nasce la questione di coniugare la felicità con il sentimento di spavento. A proposito vi è una seconda ipotesi, in conformità alla lettera del testo: “Bene (kalon) è che noi siamo qui, e faremo tre tende…”. Kalos può assumere anche il significato di “buono, utile”. Pertanto si può intendere la frase: “Utile è che noi stiamo qui, per fare tre tende”. In tal senso Pietro si vuol rendere disponibile o utile per costruire le tende di alloggio ai tre personaggi. I discepoli, pieni di timore, non sopportano la situazione e non hanno la forza per attendere ciò che ancora deve accadere. Pietro allora sfugge al disagio dicendo di voler erigere le tende. Per questo il testo dichiara che “non sapeva cosa rispondere” (v. 6a). Di fronte alla realtà celeste si innesta un’attività umana dissennata e fuori luogo, dato che le tre persone sono avvolte nella gloria divina.
Inoltre Gesù non li ha portati sul monte per attivare la loro capacità, ma per assistere alla straordinaria e unica esperienza, per vedere e ascoltare. L’intervento di Pietro si presta a fare da sfondo alle parole luminose di Dio: “Ascoltatelo”. Gesù in effetti non è “oggetto” manovrabile dall’uomo, come neanche Mosè ed Elia. Egli è rivelato “soggetto” divino, che deve essere ascoltato e seguito incondizionatamente, in corrispondenza alla suprema volontà divina anticipata dalla legge e dai profeti.
5. La sublime teofania cristologica
Alla prima fase rivelatrice, con valore preparatorio, sussegue questa seconda, risolutiva, dove la teofania raggiunge il vertice, in quanto manifesta il rapporto che lega Gesù a Dio.
Mentre prende il sopravvento l’umana incomprensione di Pietro, interviene prontamente Dio per proclamare l’identità di Gesù. Sono avvolti dall’ombra di una nube da cui proviene una voce. Non è specificato chi siano adombrati, se i tre discepoli o i tre personaggi, oppure tutti sei. Il particolare non ha rilievo per la comprensione del testo.
Nella tradizione biblica la nube accompagna le manifestazioni divine. Sul monte Sinai costituiva un segno della presenza di Dio, nascosta e potente. Nel percorso delle zone desertiche essa ricopriva la tenda del convegno, mentre la gloria di Dio riempiva la dimora.
Nel nostro testo la nube diventa il contesto privilegiato e il modo attraverso il quale Dio non solo si rende presente, ma si fa vivo e rivolge la parola ai tre discepoli, con una dichiarazione esplicita e definitiva: “Questi è il Figlio mio, l’amato” (v. 7b); e prosegue con un ordine perentorio e autorevole: “Ascoltate lui”.
I discepoli apprendono direttamente dall’Onnipotente l’identità propria di Gesù. È Dio che lo dichiara e lo mostra quale suo Figlio amato. Non esiste una proclamazione e una rivelazione più luminosa e dichiarativa di questa. Anzitutto perché proviene dalla fonte suprema della verità e dell’amore, cioè dall’essere stesso divino. In secondo luogo essa fa luce totale sulla persona di Cristo, in modo che non si possa più falsificare o confondere o non recepire nella sua interezza e profondità. Veramente la teofania della trasfigurazione giunge inequivocabilmente negli abissi insondabili e radiosi del mistero di Cristo.
Tra Cristo e Dio si palesa una relazione di origine, quale Figlio generato dal Padre, e insieme si dimostra la loro parità di essere, in quanto Gesù non è posto nel rango di servo, come lo sono Mosè ed Elia, ma è innalzato alla dignità di Figlio. La tenera e vigorosa designazione di essere “l’amato” evidenzia la unicità di predilezione, con cui il Padre lo considera e giustamente lo enuncia. Nello stesso tempo quella parola rimanda alla sorte di Isacco, il figlio “amato” da Abramo, a cui è chiesto di sacrificarlo. Dietro all’amore del Padre e alla nobiltà del Figlio s’intravede la tragedia con cui i due dovranno consumare il loro rapporto di reciproca dilezione. Niente di più toccante e sorprendente.
In precedenza Pietro aveva compreso ed esternato che Gesù era il Cristo, il Messia aspettato. Il titolo richiama la relazione di Gesù con la storia salvifica e con il popolo di Israele che attende la venuta dell’inviato ultimo, il figlio di Davide, colui che sarebbe venuto a salvare e a liberare il popolo. Gesù certamente è il Messia e figlio di Davide, ma la sua identità non resta delimitata dal solo aspetto umano, essa si radica nell’essere stesso di Dio, in quanto è proclamato Figlio prediletto del Padre. È inviato nel mondo come suo ultimo dono, dopo che Dio aveva inviato i profeti quali suoi servi.
Da questo augusto riconoscimento procede l’invito ad “ascoltare lui”, con l’imperativo presente, per indicare che l’ascolto va fatto in modo continuativo e incondizionatamente. Proprio in ragione che Gesù è il Figlio di Dio, i discepoli sono chiamati ad obbedire alle sue parole. Li obbliga all’ascolto non tanto il contenuto o la qualità di quanto egli dice, ma l’identità della sua persona. È il Figlio che parla, non uno dei numerosi maestri. Più specificamente l’autorevole dichiarazione mostra che Gesù va accettato soprattutto nella sua missione che prossimamente si consumerà a Gerusalemme con la morte in croce e la risurrezione. Anche se appare scandalosa e sconveniente, essa costituisce l’espressione autentica della suprema volontà divina: corrisponde al disegno salvifico del Padre. I discepoli debbono credere e riporre in Gesù tutta la loro fiducia e speranza; egli è il Figlio diletto.
Sull’alto monte della trasfigurazione non sono proclamati nuovi codici di leggi, come sul monte Sinai con Mosè; neanche si pronunciano oracoli, come avveniva con i profeti di cui Elia è il rappresentante. Vi è solo un ordine imperituro: ascoltare Gesù. D’ora in poi Dio rivolge la sua parola tramite il Figlio. La rivelazione della volontà del Signore, dei suoi disegni e comandi, si esterna nel Figlio. I due personaggi dell’antica alleanza sono presenti come testimoni della rivelazione divina e quali garanti della connessione e continuità tra ciò che Dio ha enunciato sul Sinai e ciò che ora vuole comunicare nel monte della trasfigurazione. Essi fanno vedere che la loro missione si pone soltanto come prefigurazione e anticipazione di quella di Cristo, nel quale trova piena attuazione e compimento quanto loro hanno detto e fatto. Tale concezione deve restare impressa nel cuore e nella mente dei tre discepoli, i quali ne saranno gli autentici evangelizzatori e testimoni veraci.
Nel rapporto con la teofania iniziale del battesimo (1,11) si nota precisamente l’aggiunta dell’ascolto alle parole celesti. Dio stesso ora mostra l’importanza di quanto Gesù dice e opera, in modo che sia accolto e seguito seriamente e totalmente. Anche i demoni fin dall’inizio proclamano che Gesù è il Figlio di Dio (3,11), addirittura lo gridano. Ma certamente non diranno mai “ascoltatelo”.
La teofania si conclude con l’indicazione che i tre apostoli non vedono più nessuno se non Gesù solo con loro. Le due figure anticotestamentarie sono scomparse; i discepoli non le vedono più, perché non ne sentono il bisogno, dato che hanno con loro il Figlio diletto, subentrato ai servi. Non sentono più la voce del Padre, ma devono ascoltare quella del Figlio, in cui il Padre vuole rivelare la sua verità totale. Ciò che conta è che Gesù sia ancora con loro e loro con lui.
Si avverte inoltre che il nome terreno, Gesù, è ripetuto a più riprese in questo brano epifanico, per quattro volte in sette versetti, per sottolineare che quel personaggio eccelso, il Figlio amato del Padre, s’identifica con l’uomo Gesù, il quale, dopo l’episodio folgorante della trasfigurazione, si trova solo con i tre discepoli.
Le aspettative dei dodici e la dura verità di Gesù
Mc 9,30-50
30Usciti di là, attraversavano la Galilea,
e non voleva che qualcuno lo sapesse.
31Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro:
“Il Figlio dell’uomo è consegnato in mani di uomini,
e lo uccideranno; e, ucciso, dopo tre giorni risorgerà”.
32Essi però non comprendevano la parola
e avevano paura di interrogarlo.
33E vennero a Cafarnao. Quando fu in casa domandò loro:
“Di che cosa discutevate per la via?”.
34Essi però tacevano;
tra loro infatti si era discusso per la via chi fosse il più grande.
35Allora, sedutosi, chiamò i dodici e dice loro:
“Se uno vuole essere primo,
sia l’ultimo di tutti e servo di tutti”.
36E, preso un bambino,
lo pose in mezzo a loro e abbracciandolo disse loro:
37“Chi avrà accolto uno di questi bambini in nome mio,
accoglie me; e chi accoglie me non accoglie me,
ma colui che mi ha mandato”.
1. La disfatta del maestro e la riluttanza dei discepoli
Ad ognuna delle predizioni di Cristo circa il suo futuro, segue un atteggiamento di riluttanza da parte dei discepoli, i quali manifestano la loro durezza di cuore. Essi si collocano in una prospettiva umana che non permette di capire e di accettare la disfatta fallimentare del loro maestro; ancor più, manifestano quanto distante sia il loro pensiero dal suo, quanto diverse le loro attese messianiche dalle sue, le loro mire dalle sue. La vicinanza con lui si esaurisce dentro le dimensioni fisiche e sociali, senza una comunione d’intenti e una condivisione di spirito. Marco fa vedere quanto poco abbiano appreso o come non siano entrati nella mentalità di Gesù sorretta dalla volontà divina in opposizione alla progettualità umana. D’altra parte Gesù aveva colto bene tale limite e lo aveva stigmatizzato dicendo a Pietro: “Non pensi le cose di Dio, ma le cose degli uomini” (8,33).
Non c’è da meravigliarsi quindi se in questa sezione del Vangelo sovente emergono i pensieri, le progettazioni e le realizzazioni degli uomini in contrasto con ciò che Dio intende compiere o desidera che l’uomo adempia. Da qui la necessità per i discepoli di attuare un radicale cambiamento di mentalità per non rimanere ristretti alle categorie e agli schemi umani, ma aprirsi al disegno divino. I due mondi, quello di Dio e quello degli uomini, non si posizionano sulla stessa lunghezza d’onda. Se si vuole seguire Gesù e piacere a Dio è necessario abbandonare le concezioni del mondo. Non è certamente facile espletare un tale radicale passaggio. Per questo si fa sempre più insistente e reiterato l’insegnamento di Cristo, il quale, anche in questo frangente, non può far altro che convocare a sé i dodici e, nell’intimità di una casa a Cafarnao, esporre discorsi e gesti che assumano uno stimolo illuminante e decisivo per loro.
Questa intessitura delinea il presente brano evangelico, che si articola in tre momenti: anzitutto Gesù nuovamente preannuncia il suo imminente destino di morte e risurrezione (vv. 30-31); segue la reazione dei discepoli, incuranti di ciò che sta per accadere al loro maestro, rivolti appassionatamente alla ricerca di supremazia e di grandezza mondana (vv. 32-34); infine Gesù, seduto in mezzo a loro, con ammonimenti e segni visibili intende spezzare il criterio umano dell’arrivismo e della carriera per proporre una logica totalmente diversa o, meglio, diametralmente opposta (vv. 35-50).
2. La predizione della passione: L’Ucciso dagli uomini e il Risorto
“Usciti di là, attraversavano la Galilea, e non voleva che qualcuno lo sapesse” (v. 30). È il momento della partenza. La località può essere individuata nella regione intorno a Cesarea di Filippo o piuttosto ai piedi del monte della trasfigurazione, dove Gesù aveva liberato l’epilettico indemoniato. Con tale esodo si può intravedere la sua intenzione di dare l’addio ai luoghi dell’attività apostolica per dirigersi alla volta di Gerusalemme. L’autore cerca di imprimere nella mente del lettore il fatto ultimo e inatteso che Cristo è incamminato verso la città santa per compiere là il suo infame destino. Si tratta perciò di una svolta risolutiva senza possibilità di ritorno o di rimpianti.
Gesù non vuole che si sappia della sua presenza. Senza fare soste e, per quanto possibile, passando inosservato, percorre la Galilea, dove è risuonato ampiamente l’evangelo e si sono compiuti prodigi in gran numero; essa costituisce l’ambiente principale della sua persistente attività a favore del popolo. Ormai è giunto il momento di distaccarsi da quei luoghi, dove il suo ministero può considerarsi chiuso e per questo si aggira in incognito.
Il motivo più impellente, perché il viaggio tra i villaggi della Galilea non sia pubblicizzato, probabilmente sta nel fatto che il maestro ha buone ragioni per supporre che i discepoli non abbiano capito o voluto intendere la fine disonorevole dell’attività messianica. A tale scopo evita l’affollamento attorno a sé per restare solo con loro e illuminarli per la seconda volta sulla sua sorte, quando dalle mani del Padre celeste viene consegnato in quelle meno amorevoli degli uomini. Il funereo evento è già in via d’attuazione, per cui il tempo verbale messo al presente: “È consegnato”.
Ci si chiede da chi sia consegnato. Poiché si tratta di un passivo impersonale, l’interpretazione più verosimile è quella teologica, nel senso che l’artefice principale della consegna sia da ricercarsi in Dio e nel suo disegno misterioso, sebbene si serva di circostanze storiche in cui s’inseriranno precise decisioni umane. Non va sottovalutato che il verbo “consegnare” sarà usato per indicare il tradimento di Giuda, il quale cercherà l’occasione opportuna per “consegnare” Gesù ai sommi sacerdoti (14,10).
Egli viene dato, quale dono del Padre, nelle mani degli uomini, i quali purtroppo non useranno segni di accoglienza, al contrario “lo uccideranno”, come pronuncia esplicitamente il testo. Strano paradosso! Il gesto amoroso del Padre, che offre il proprio Figlio e lo affida alle creature umane, è amaramente corrisposto con gli atteggiamenti beffardi di rifiuto e di violenza aggressiva fino all’estremo atto dell’assassinio. L’operazione umana conduce alla morte, mentre l’offerta sacrificale di Dio compie l’azione salvifica a favore propriamente di questi uomini che vogliono distruggerlo.
Si sa che il Figlio dell’uomo, titolo che Gesù addita a se stesso, è destinato al dominio universale, quando “verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi” (8,38). In qualità di sovrano assoluto riceverà il dominio eterno, come preannunciato dal libro di Daniele (7,13-14). Tuttavia per il momento deve sottoporsi all’assoluta impotenza, in balia delle manovre degli uomini, sconfitto dal dominio dell’umana malvagità, prima di risorgere il terzo giorno. Ancora si palesa la paradossalità del divino progetto e lo sconcerto che esso provoca non solo nell’animo dei discepoli, ma di ogni soggetto umano ristretto alla visione unilaterale del trionfo tout court, senza sospettare minimamente che la gloria sboccia dalla debolezza della sconfitta. Ciò dimostra che tale progetto va al di là dell’orizzonte mondano e si origina dalle altezze incommensurabili della divina sapienza. Solo essa può trasformare la morte in vita, il fallimento in vittoria.
Questa seconda profezia sulla passione e risurrezione risulta meno estesa e particolareggiata rispetto alla precedente. Allora si poneva in primo piano la sofferenza del Figlio dell’uomo per mano del sinedrio, composto dalle autorità teocratiche del giudaismo: anziani, sommi sacerdoti e scribi (8,31). Ora invece si mette in evidenza la consegna del Figlio dell’uomo nelle mani degli uomini, in senso generico. Il detto assume proporzioni più vaste, riferendosi all’incapacità degli uomini di capire il mistero di Cristo o di fraintenderlo, fino all’estremo di perseguitarlo a morte. L’espressione biblica “in mani di uomini” tratteggia una tribolazione tremenda in quanto le mani degli uomini sono certamente più pesanti e oltraggiose di quelle di Dio, come mostra il brano veterotestamentario sulle vicende del re Davide, il quale, riconoscendo il peccato di aver censito il popolo, preferisce essere castigato da Dio piuttosto che sottostare alla prepotenza irrefrenabile delle punizioni umane (2Sam 24,14).
La vicenda di Cristo tuttavia non termina con l’annientamento della morte. Qui sta la profondità insondabile della sua profezia, non solo perché la morte resta un limite insuperabile per l’uomo e segno della sua totale disfatta, oltre la quale non si può percepire un futuro, da cui lo smarrimento e lo scandalo dei discepoli, ma più misteriosamente perché l’annuncio afferma un evento dopo la morte, del quale non si riesce a comprendere alcun significato umanamente accessibile. Pertanto si richiede un’autentica e piena disponibilità ad accogliere quell’evento al di là della morte quale atto unicamente scaturente dalla potenza infinita. La difficoltà non è solo determinata dalle ristrettezze delle vedute umane, ma tocca l’abisso inesplorabile del mistero divino. La pochezza antropologica si assomma e si aggrava in forza della illimitata lungimiranza teologica. Alla ragione cioè si richiede l’aggiunta della fede. E i discepoli sono difettosi d’ambo i lati.
Quell’evento oltre la morte Gesù lo proclama solennemente: l’Ucciso dagli uomini risorgerà. “Dopo tre giorni” va collegato all’intervento di Dio, che oltrepassa l’operato umano determinato entro i confini della morte. Ma Dio il vivente si rivela più potente degli uomini e il Risorto diventa definitivamente irraggiungibile dalle mani degli uomini.
3. I discepoli tra l’incomprensione, la paura e la discussione
Al chiaro ed esplicito annuncio del maestro, i discepoli palesano due atteggiamenti che non possiedono un rapporto logico, se non quello di far emergere che loro non hanno alcuna intenzione di voler indagare. In primo luogo Marco scrive che “essi non comprendevano la parola” (v. 32a) di Gesù. Da ciò dovrebbe conseguire la necessità di chiedere spiegazioni, di fare domande per meglio capire quanto detto. Invece l’evangelista sottolinea che essi “avevano paura di interrogarlo” (v. 32b). Se Gesù fa di tutto per aprire loro la mente e il cuore, in modo da non lasciarli impreparati, al contrario loro mostrano di non volerne sapere, preferendo rimanere all’oscuro.
La prima volta quando Gesù aveva preannunciato il suo destino, Pietro ne aveva ben capito il senso tanto da reagire prontamente, anche in modo alquanto vivace, rimproverando il maestro, da cui subito è stato ripreso con severità (8,32-33). In un secondo momento, nella discesa dal monte della trasfigurazione, i tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni si sono limitati a bisbigliare fra di loro cosa volesse dire risuscitare dai morti (9,10); avevano poi interpellato il maestro su questo argomento non direttamente, ma interessandosi alla venuta di Elia (9,11-13). Ora, di fronte alla parola chiara di Gesù, non solo non comprendono l’istruzione, ma tacciono fra loro come pure con Gesù, con il timore di chiedere delucidazioni, recalcitranti ad apprendere maggiori particolari spaventosi sulla sorte di Cristo.
Il timore li paralizza e li condanna all’ignoranza, ed essi rischiano di rimanere esclusi dall’inserimento nell’evento salvifico in vista del quale sono stati chiamati; lo spavento costituisce un grande ostacolo come una forma di difesa o di fuga che di fatto li allontana da Gesù e li chiude nel silenzio. Tuttavia il comportamento da essi assunto non è dovuto soltanto ad una loro peculiare malizia, ma dimostra quanto sia difficile, per il sentire umano spontaneo, accettare e seguire il Messia destinato al fallimento della condanna a morte.
Nel frattempo Gesù e i suoi giungono a Cafarnao, entrano in casa e vi rimangono. La cittadina nei pressi del lago di Galilea è il luogo di riferimento dell’attività apostolica di Gesù; potremmo dire che là è di casa. Sovente si è visto come da questo luogo si muoveva per andare nei villaggi vicini e come poi vi ritornava. Anche ora, seppur incamminato verso la città della sua passione e della sua morte, fa una sosta e si introduce in quella che poteva considerarsi la sua abitazione, forse la casa di Pietro e Andrea o di Levi, per dare ai discepoli ulteriori importanti istruzioni.
Prima di avviare il discorso, fa una domanda specifica, che coglie di sorpresa i suoi lasciandoli senza parole: “Di che cosa discutevate per la via?” (v. 33b). Forse sulla strada Gesù precedeva da solo, mentre i discepoli, che lo seguivano, sicuri di non essere uditi, avevano intavolato una disputa per loro interessante.
All’indagine del maestro, oppongono il più assoluto silenzio: “Essi però tacevano” (v. 34a). Si nota una particolare contraddizione: su ciò che Gesù aveva detto, essi non vogliono approfondire; su ciò in cui loro si sono intrattenuti, il maestro non deve saper nulla. Ma, come spesso succede, Gesù li mette allo scoperto, lui che conosce i pensieri reconditi degli uomini, a maggior ragione degli amici.
Il testo afferma: “Tra loro infatti si era discusso per la via chi fosse il più grande” (v. 34b). L’autore, quale personaggio esterno, interviene nella narrazione per informare il lettore. Abbandonato l’approfondimento sul destino di Cristo, ai discepoli non resta altro che pensare a se stessi, nell’interesse di primeggiare uno sull’altro, nella bramosia di onore e di potenza. Dimostrano così di essere invasi dalla mentalità tipica degli uomini, senza rendersi conto che Gesù verrà consegnato proprio “in mani di uomini e lo uccideranno”. La posizione di prestigio li affascina e li coinvolge prepotentemente.
Gesù e i discepoli sono sulla stessa “via”, la percorrono insieme, sebbene vivano in mondi diversi. L’uno va incontro alla sofferenza e alla riprovazione degli uomini; gli altri pensano al trionfo e alla gloria umana, contemplandosi seduti su posti d’onore.
L’aspirazione alla grandezza umana penetrava interamente il mondo palestinese. In ogni occasione, nelle assemblee religiose, nell’amministrazione della giustizia, alla mensa comune, in ogni attività, sorgeva continuamente la questione chi fosse il più grande; la valutazione della dignità, del posto spettante ad ognuno diventa oggetto di assidua attenzione e vi si annetteva grande importanza.
4. L’insegnamento di Gesù: L’ultimo di tutti e il servo di tutti
Non ricevendo alcuna risposta, Gesù si pone a sedere, nella posizione abituale di chi vuol insegnare. Poi chiama i dodici, quelli che aveva scelto e inviato, quelli che da tempo vivevano assieme con lui, per impartire un lungo e autoritario insegnamento. L’atteggiamento di mettersi seduto e di chiamare a sé conferisce un’enorme gravità alle parole, specialmente se lette dalla comunità ecclesiale, costretta a riconoscere la propria immagine riflessa nell’incomprensione dei dodici e nel loro contegno che contrasta con la mentalità di Dio.
La chiamata accanto a sé indica non soltanto l’intento di unificare l’attenzione e di stimolare l’ascolto a tutti loro, ma in certo senso si può intendere come una nuova convocazione o vocazione a stare vicino al Cristo, loro unica e veritiera guida. Ciò avviene proprio nel momento cruciale in cui il maestro ha intrapreso la strada verso il compimento della sua missione e i suoi devono prenderne coscienza in modo serio e autentico. D’altra parte egli si rende conto che questi seguono un altro viadotto che li porta fuori dalla via prospettata da Dio e li intrappola nella falsa logica del mondo. Anche per loro si tratta di intraprendere una svolta forte e sicura, di attuare una vera e totale conversione di rotta. Per questa ragione il maestro li chiama di nuovo per allontanarli dalla strada sbagliata e avvicinarli a sé, con l’intenzione che anch’essi si sentano coinvolti in questo nuovo impegnativo percorso.
Senza mezzi termini, né compromessi o indugi, egli svela subito quale debba essere la collocazione del suo seguace: stare all’ultimo posto, in contrasto con la preoccupazione di aspirare alla gloria e a posizioni di onore. Verso la situazione più umile deve orientare il suo cuore. Gesù vuole inculcare in lui il desiderio di considerarsi tra gli ultimi, per essere idoneo a farsi servo. Con ciò non si pone contro una vera ed efficiente gerarchia, ma piuttosto intende cambiare e rinnovare lo spirito umano, trasferendo in esso l’atteggiamento di semplicità e di umiltà. Opera in tal modo un vero capovolgimento di valori: l’aspirante ai primi posti deve porsi all’ultimo. Tale rovesciamento non può rimanere nell’ambito delle intenzioni astratte, ma deve realizzarsi concretamente; non solo, ma esso è talmente incisivo nel cuore umano, che il desiderio della grandezza e del primato deve scomparire per lasciar posto alla sincera convinzione di essere realmente poveri e piccoli, da meritare veramente l’ultimo gradino. Solo allora il discepolo si è reso idoneo a mettersi sulle tracce del maestro.
A tale proposito va segnalato che il testo evangelico precisa due cose: essere l’ultimo di tutti e il servo di tutti, mettendo in rilievo il passaggio dall’essere (ultimo) all’agire (servo). Ciò significa che solo se il cuore viene purificato dall’umiltà e diretto interiormente verso i posti ultimi, sarà abilitato al servizio disinteressato e solerte verso gli altri.
Il servizio è qui indicato con il termine diakonos, che non designa uno stato (come doulos), ma una distinta funzione, svolta con libertà e premura, come il servizio a tavola. In un pranzo il diakonos designa la persona che s’interessa vivamente delle esigenze del prossimo e si adopera per venirgli incontro. Gli occhi e l’attenzione del servo devono dirigersi alle necessità altrui e ad un aiuto reale; non possono ripiegarsi su se stessi o limitarsi alle solo formalità o trascurare alcune persone e privilegiare altre.
Gesù ripete per due volte la parola “tutti”: ultimo di tutti e servo di tutti, per significare che ogni possibile rapporto con qualsiasi persona è determinato non solo dallo spirito di umiltà e di prestazione, ma anche dalla realtà di tutti coloro che vanno serviti. L’orizzonte si dirige verso la totalità degli uomini, evitando ogni particolarismo, in modo che l’atteggiamento interiore non lasci sfogo a qualche squarcio di riserva o di esclusione, che darebbe ragione a un ricupero di un’affermazione di sé e delle proprie vedute a discapito del disporsi verso tutti. Il maestro esige una pienezza incondizionata di servizio.
5. L’abbraccio amorevole verso un bambino
Alla parola si accompagna il gesto ampiamente descritto e plasticamente significativo: “E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e abbracciandolo disse loro” (v. 36). Gesù prende un solo bambino per dare più concretezza e incisività al suo discorso, poi lo pone nel mezzo perché lo vedano tutti e bene, infine lo abbraccia, quasi ad identificarsi con quell’innominato e sconosciuto fanciullo.
Per una maggiore chiarificazione, egli aggiunge un’altra parola, in modo da illustrare il senso più vero di quell’abbraccio, se ancora non lo avessero pienamente compreso: “Chi avrà accolto uno di questi bambini in nome mio, accoglie me e chi accoglie me non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” (v. 37). Il Figlio è stato inviato dal Padre e gli uomini non lo hanno abbracciato, anzi lo ripudieranno e uccideranno. Spetta ora ai discepoli compiere la giusta accoglienza e l’atto d’amore nei confronti di Gesù e, di rimando, verso il Padre che lo ha inviato. Il maestro divino perciò intende identificarsi con quel bambino che stringe fra le braccia per fare tutt’uno con lui. Ma questo gesto comporta la disponibilità ad abbandonare la smania di grandezza, scendere dal piedistallo, diventare gli ultimi e porsi al servizio di colui che necessita di ogni cosa, è fragile, ha bisogno di essere continuamente assistito. Costui è propriamente il bambino, il quale diventa il luogo e l’espressione dove si ritrova e si riconosce il Cristo e con lui il Padre.
Qui la sagoma infantile non va intesa come esempio di umiltà, né va vista quale invito a diventare piccoli. Il fanciullo non è soggetto che agisce o si qualifica per qualche specificità. Piuttosto esso è oggetto di attenzione e di accoglienza, di amore. In lui viene rappresentata una larghissima fascia di persone deboli, bisognose di conforto, d’istruzione, di pane. Verso di lui il discepolo deve dirigere il suo affetto e il suo interessamento.
Gesù si identifica con il piccolo e l’indifeso, l’emarginato, il gracile. Solo accogliendo in totalità il mistero del rifiutato si è capaci di riconoscere Cristo nel bambino. L’ambizione umana a diventare grandi non fa comprendere la realtà della croce, anzi allontana il discepolo da Gesù crocifisso, impedendogli di abbracciarlo come un infante.
I preparativi e l’arrivo a Gerusalemme
Mc 11,1-11
1Quando si avvicinano a Gerusalemme,
verso Bètfage e Betania, presso il monte degli Ulivi,
invia due dei suoi discepoli,
2e dice loro: “Andate nel villaggio, quello di fronte a voi,
e subito, entrati in esso, troverete un puledro legato,
sul quale nessun uomo si è mai seduto; scioglietelo e portatelo.
3E se qualcuno vi dicesse: Perché fate questo? Dite:
Il Signore ne ha bisogno; ma subito lo manda di nuovo qui”.
4E andarono e trovarono un puledro,
legato presso una porta, fuori sulla strada, e lo sciolgono.
5Alcuni di quelli che stavano lì dicevano loro:
“Cosa fate, che sciogliete il puledro?”.
6Essi allora dissero loro come Gesù aveva detto;
e quelli li lasciarono.
7E portano il puledro da Gesù,
e vi gettano sopra i loro mantelli e (Gesù) vi si sedette.
8Allora molti stesero i loro mantelli sulla strada,
altri fronde verdi, tagliate nei campi.
9Quelli che precedevano e quelli che seguivano
gridavano: “Osanna!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
10Benedetto il regno che viene del padre nostro Davide.
Osanna negli altissimi (cieli)!”.
11Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio,
e, guardata intorno ogni cosa, essendo già l’ora tarda,
uscì verso Betania insieme ai dodici.
1. L’invio di due discepoli per la preparazione
Con questo brano inizia un’altra sezione del Vangelo di Marco che espone l’attività di Gesù a Gerusalemme, segnata soprattutto da ripetute diatribe e scontri con le autorità religiose e con le fazioni interpretative della legge. Secondo l’evangelista l’operazione si articola in tre giornate: nella prima sono descritti l’approccio e l’ingresso trionfale di Gesù; nella seconda la narrazione è circoscritta alla scacciata dei venditori. In questo aspetto Marco si differenzia dagli altri due sinottici che collocano l’espulsione dei mercanti del tempio subito dopo il suo arrivo. Nella terza giornata sono esposti i temi sull’autorità di Gesù e le questioni teologiche e morali poste dai gruppi autorevoli della società religiosa. Il tutto si conclude con il discorso escatologico.
Gesù sale per la via che viene da Gerico, attorniato da discepoli e da frotte di pellegrini. Prima di raggiungere Gerusalemme deve attraversare il monte degli Ulivi, che si trova ad oriente della città e dal quale si vede la capitale nella sua interezza. Finalmente la si può osservare e interpellare frontalmente. Il Messia e la città santa si trovano uno di fronte all’altra, in una sorta di avvicinamento e di contrapposizione. Si approssima l’ultimo facciale incontro e scontro tra i due. Il momento appare gravido di eventi cruciali ed emozionanti. D’altronde il maestro in tal senso si era ripetutamente espresso nelle predizioni del suo arrivo finale. Che cosa realmente accadrà? Come agirà l’uno e come si comporterà l’altra? Come risponderà Gerusalemme all’arrivo di Gesù? Quali interventi decisivi egli compirà nei confronti della città che costituisce il cuore del popolo ebraico? Si tratta dell’effettiva conclusione della vicenda di Gesù di Nazaret. Il lettore rimane pieno di suspance. Come si svolgeranno gli avvenimenti?
All’apertura della pericope, dopo l’indicazione dell’approssimarsi verso Gerusalemme, sono annotate due borgate: in secondo luogo si pone Betania, assai conosciuta, che si trova a tre chilometri circa da Gerusalemme, sul dorsale sud orientale del monte degli Ulivi. Sarà il luogo di pernottamento del maestro durante il periodo di permanenza nella città santa. Ogni giorno egli partirà di là per ritornarvi la sera. Per quanto riguarda la prima località, Bètfage, non si sa con precisione dove si trovasse, certamente nei pressi di Betania, forse più vicina a Gerusalemme.
Da queste località la capitale si trova ormai alla portata, calcolando la distanza con il percorso permesso in un giorno di sabato. Il pellegrinaggio verso Gerusalemme dunque sta per finire.
Lungo il viaggio, solo i dodici sono stati informati dettagliatamente su quanto accadrà al maestro; essi inoltre sanno che lui è il Messia. Il resto della folla vede ancora Gesù come un grande profeta. Tuttavia mentre usciva da Gerico per salire verso la città santa, il cieco Bartimeo lo aveva chiamato “figlio di Davide”, riconoscendolo come Messia e, una volta ricuperata la vista, lo ha seguito.
Ora Gesù sta per giungere a Gerusalemme e ci si chiede come si mostrerà davanti al popolo assai numeroso in occasione della pasqua. Egli vi può entrare quale pellegrino come tutti gli altri. Ma non è così. È lui a prendere una decisione sorprendente e a decidere sul da farsi, calcolando con precisione ogni cosa. È lui che propone l’andamento degli eventi, con un’autorità e prescienza che appartengono esclusivamente a lui.
Per attuare il suo proposito il maestro si serve di due discepoli. Sono due persone ad essere inviate in qualità di mandati, i quali agiscono non a nome proprio, ma in ossequio a qualcuno che ha tutto predisposto e autorevolmente ordinato.
2. Le prescrizioni minuziose del maestro
Due versetti (vv. 2-3) si dilungano a trascrivere gli ordini perentori con cui Gesù premunisce e instrada i due inviati. Le sue disposizioni sono chiare e precise, in modo che ogni azione sia eseguita nei minimi particolari. I due devono effettuare ogni cosa pedissequamente e scrupolosamente. A loro non spetta decidere nulla né aggiungere o mutare alcun frangente all’incarico da svolgere.
Anzitutto Gesù li spedisce (“andate”), additando il luogo dove devono dirigersi: il villaggio che sta di fronte. E fin qui nulla di speciale o sorprendente.
Ciò che stupisce è che egli conosce oggetti, animali, persone che incontreranno in quella borgata. Precisamente un “puledro” (pōlos = animale piccolo), legato, sul quale nessuno è mai salito. Già qui nasce un’obiezione. Come fa a sapere che in quella borgata c’è un asinello e per di più legato e oltretutto così novello da non essere stato mai cavalcato da alcuno? Si vede chiaramente la facoltà preveggente di Cristo, che aveva dimostrato in precedenza nei tre preannunci della sua morte. Ciò fa intendere che egli affronta le vicende che l’attendono non come uno sprovveduto, al quale capitano guai e incidenti senza che se ne renda conto. Al contrario prevede e fronteggia con lucidità e consapevolezza. Ogni cosa e ogni fatto, che siano d’importanza, sono da lui puntigliosamente stabiliti.
Il fatto poi che sull’asinello nessuno è mai salito fa capire che qualcuno vi salirà, sebbene non sia ancora esplicitato il nome di costui. Inoltre fa emergere il carattere singolare, si direbbe unico, quasi sacro, della prima cavalcata dell’animale e di colui che lo cavalca.
Una volta trovato l’asinello, ai due discepoli è spiegato, sempre da Gesù, cosa devono fare: scioglierlo e portarlo via. Il fatto di slegarlo e di condurlo altrove, senza avvertire i proprietari, fa supporre che l’ordinanza ricevuta abbia una sua valida autorità e che il puledro debba svolgere una funzione di rilievo, sebbene non sia indicata di quale modalità né da quale persona esso debba essere usato. In effetti queste dettagliate disposizioni lasciano l’animo sospeso e incuriosito.
A cosa può servire un asinello e a chi? Tuttavia a prima vista si tratta di compiere un gesto assai semplice. L’aspetto più preoccupante potrebbe essere la reazione indispettita e violenta dei padroni. Anche di fronte a tale situazione d’imbarazzo Gesù pone le sue serene delucidazioni. Nulla sfugge alla sua perspicace preveggenza.
Senza che i discepoli ponessero alcuna obiezione, subito li previene. Le sue parole alludono alle rimostranze che potrebbero incontrare: “E se qualcuno vi dicesse: Perché fate questo? Dite” (v. 3a).
I due inviati devono rispondere con limpidezza: “Il Signore ne ha bisogno, ma subito lo rimanda di nuovo qui” (v. 3b). Il fatto che l’asino verrà riportato vuol dire che il gesto di trascinarlo via non denota un ladrocinio, ma semplicemente un uso provvisorio, dopo del quale sarà restituito.
Devono inoltre dichiarare: “Il Signore ne ha bisogno”. La frase è molto significativa e illuminante. Finalmente si sa chi ne deve fare uso e il motivo per cui viene catturato. È Gesù che se ne serve. Tuttavia il testo non dice che è Gesù o il maestro, ma asserisce il “Signore”. Gesù si rivela Signore. Con questa asserzione si capisce la franchezza e la fermezza di cui sono dotati i suoi ammaestramenti. Lui è il Signore che può disporre di ogni cosa e che tutti sono a lui sottomessi. Per questo motivo non deve piegarsi a perorare la sua causa né i suoi inviati devono indugiare o temere. Chi più potente e influente del Signore?
Veramente Gesù si manifesta nella sua signoria, nella sua potestà e autorità. Il bisogno che ne ha non indica tanto una necessità materiale. Il puledro deve essere utile al Signore, ovvero deve essere strumento e segno della sua potestà. La presenza del puledro quindi acquista un valore ineluttabilmente rilevante. Senza di lui l’arrivo di Gesù a Gerusalemme perderebbe ogni significato e valore. Proprio l’uso del puledro rivela un aspetto illuminante sulla sua persona e sulla sua missione. Non certo quella della stanchezza o di una necessità usuale, come caricare della legna o muoversi più agevolmente per il rimanente percorso verso Gerusalemme.
Va segnalato inoltre lo strano accostamento tra il termine “Signore”, ricco di grandezza e potenza, con il bisogno di un povero animale come l’asino. Se veramente è il Signore, perché l’indigenza di un puledro? Eppure questa volta il Signore ha bisogno proprio di un giovane asino, non di altri animali più nobili né di uomini.
3. Gesù su di un puledro con i mantelli
Alla commissione del maestro succede l’esecuzione dei due inviati che avviene come era stato loro predetto, obiezione compresa (vv. 4-7). Si conferma così che alle parole corrispondono in tutto e per tutto i fatti concreti. Le stesse difficoltà si superano prontamente. Da qui il senso veritiero della funzione profetica di Cristo.
Nei vv. 6 e 7 è nominano per due volte il nome Gesù, quale soggetto che ha ordinato di legare il puledro e portarlo. La finale del v. 7 finalmente fa vedere che il puledro serve a Gesù perché vi possa sedere sopra. A tale scopo occorre un rivestimento, che ricopra il dorso dell’animale. Dove trovarlo? Non esiste in quel luogo e nessuno la porta con sé. Ad esso sono sostituiti i mantelli. Da qui il carattere improvvisato e, se si vuole, misero di questa cavalcata. Per di più l’animale è stato preso in prestito.
A questo punto del racconto, il gesto di salire sull’asino per dirigersi a Gerusalemme costituisce un grosso segno per rivelare il modo con cui Gesù si presenta davanti alla città santa e di riflesso a tutto il popolo giudaico. Ma per meglio capire quanto sta per accadere si rende utile consultare la sacra Scrittura, dove si possono rintracciare segnali chiarificatori e premonitori.
Un passo del profeta Zaccaria suona così: “Esulta grandemente figlia di Sion, giubila figlia di Gerusalemme. Ecco a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra” (9,9-10).
Da questo brano profetico si ricavano alcuni aspetti significativi. Anzitutto si proclama la dimensione regale di colui che viene (“viene il tuo re”), apportatore di un regno di pacificazione e messaggero di un avvento della pace. Inoltre la sua figura è caratterizzata dall’umiltà, dalla mitezza, insieme dalla vittoria. La città di Gerusalemme è invitata ad esultare e giubilare. Il re cavalca un puledro, figlio di asina, per indicare l’animale che si contrappone ai cavalli potenti in guerra. Non dunque un re guerriero, ma pacifico, privo di esercito e di armi. Spoglio del fasto o della potenza terrena. Appare del tutto diverso dall’arrivo vittorioso dei generali. Eppure il suo regno è vincitore, il suo dominio sarà universale “da mare a mare e dal fiume ai confini della terra”.
Un altro testo biblico da tener presente è tratto dalla Genesi: “Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli. Egli lega alla vite il suo asinello e a scelta vite il figlio della sua asina, lava nel vino la veste e nel sangue dell’uva il manto; lucidi ha gli occhi per il vino e bianchi i denti per il latte” (49,10-12). Dal testo si vede come il regno messianico generi abbondanza e prosperità.
Infine un brano rilevante riguarda il momento in cui Salomone, “figlio di Davide”, è proclamato re e sale sulla mula di suo padre. Davide lo ordina: “Prendete con voi la guardia del vostro signore; fate montare Salomone sulla mia mula e fatelo scendere a Ghicon. Ivi il sacerdote Zadok e il profeta Natan lo ungano re d’Israele. Voi suonerete la tromba e griderete: Viva il re Salomone. Quindi risalirete dietro a lui, che verrà a sedere sul mio trono e regnerà al mio posto. Poiché io ho designato lui a divenire capo d’Israele e di Giuda” (1Re 1,33-35); e così avviene. È Davide che designa quale dei suoi figli deve regnare e divenire suo successore nel regno d’Israele e Giuda.
4. L’accoglienza e l’acclamazione della folla
Riprendendo il racconto marciano, vi si narra che quando Gesù si è assiso su quell’asinello, la folla compie nei suoi confronti atti di riverenza (v. 8) e intona alcune ovazioni (vv. 9-10).
Al v. 8 si descrivono i gesti compiuti sia dai “molti” che “stesero i mantelli sulla strada” sia da altri che tagliano fronde dai campi. Per intendere il senso dei mantelli stesi lungo la via viene in aiuto il passo di 2Re 9,13, dove si dice che quando Ieu diventa re d’Israele, unto dall’inviato del profeta Eliseo, tutti presero in fretta i loro vestiti e li distesero sotto di lui sui gradini, suonarono la tromba e gridarono: Ieu è re. Similmente nella presente situazione, con l’allungamento dei mantelli si vuole riconoscere la sovranità di Gesù che dal monte degli Ulivi si avvia verso la città santa.
Il taglio delle fronde, gettate sul percorso, è trascritto in Matteo con riferimento ai rami di alberi (probabilmente ulivi), mentre in Luca manca e in Giovanni è precisato con i rami di palme che la gente tiene in mano mentre va incontro a Gesù. Nel testo di Marco si parla di fronde, ovvero dell’erba e di tutto ciò che cresce nei campi: viene strappato e lanciato lungo il tragitto. Un gesto improvvisato, spontaneo, senza programmazione. Nasce dal cuore ammirato.
I vv. 9-10 espongono le parole che fuoriescono dalla folla che vede Gesù sull’asino. Il corteo si muove scendendo dal monte degli Ulivi per salire poi a Gerusalemme. La gente si accalca vicino a Gesù: alcuni lo anticipano ed altri lo seguono. Egli sta nel mezzo acclamato da tutti. La turba grida. Il verbo “gridare” esprime entusiasmo, intensità, calorosa esternazione. Nel brano precedente, la calca nei pressi di Gerico cerca di azzittire il cieco Bartimeo perché non gridasse, ora tutti coloro che accompagnano Gesù si sintonizzano in una sola voce osannando con forza, per farsi sentire in modo che risuonino fortemente le acclamazioni.
Per cogliere il senso più profondo di quelle parole, ci si riferisce al Salmo 118, che offre numerosi agganci alla vicenda: “Ordinate il corteo con rami frondosi”; “Rallegriamoci ed esultiamo”; “Dona Signore la tua salvezza (osanna)”; “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”; “La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo”.
Un termine speciale è posto all’inizio e alla fine delle grida: “Osanna”; “Osanna negli altissimi (cieli)”. È una parola ebraica, che viene traslitterata in greco ed esprime etimologicamente una invocazione, una supplica, una richiesta di aiuto salvifico; vuol dire alla lettera: “Salva, ti prego”; “dona la salvezza per favore”. Esplicita un desiderio di salvezza nella speranza che si realizzi. Nel Salmo 118,25 la medesima parola è usata in riferimento a Dio quale fonte di vittoria e di salute o di fortuna: “Dona, Signore, la tua salvezza; dona, Signore, la tua vittoria (fortuna, prosperità)”.
In seguito il vocabolo osanna è stato trasferito per indicare un’acclamazione di lode, come quando in Matteo si legge: “Osanna al Figlio di Davide”. Non è facile determinare se in Marco voglia palesare una richiesta di aiuto oppure un invito alla lode e al giubilo. Potrebbe abbracciarli ambedue.
Allora il grido popolare esteriorizza l’invito alla lode e all’esultanza che dai pellegrini sale alla corte celeste per l’arrivo di Gesù a Gerusalemme; insieme si fa grido di soccorso, per affidarsi alla salvezza che Gesù dona al suo popolo (il nome Gesù deriva dallo stesso verbo “salvare”).
5. Benedetto l’inviato del Signore e il regno di Davide che viene
Dopo il grido di osanna, seguono due espressioni parallele intonate alla benedizione: l’una rivolta a Gesù che viene, l’altra diretta al regno davidico.
L’acclamazione del corteo risuona con queste parole: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. La frase è ripresa alla lettera dal Sal 118,26a. È probabile che nel salmo il sacerdote si rivolga ad un re che è stato salvato da Dio e che ha sconfitto i nemici nel nome del Signore (Sal 118,11.12). Il re si presenta al tempio, dove i sacerdoti costatano che ha ricevuto grazie ed è benedetto dal Signore, per questo si reca a rendere grazie.
L’espressione ora si applica a Gesù: egli viene nel nome del Signore, cioè in unione con l’autorità e la forza di Dio. Egli è mandato dal Signore quale suo vicario. La folla riconosce in lui la potestà divina, a differenza dei capi religiosi, come si avrà modo di vedere nella sua attività a Gerusalemme. Inoltre è benedetto dal Signore, ricolmato di grazie e di favori.
La seconda frase gridata dalla folla asserisce: “Benedetto il regno che viene del padre nostro Davide” (v. 10a). È riportata solo da Marco. Con quelle parole la turba pensa fiduciosamente al regno di Davide, che con l’arrivo del Cristo viene restaurato. Gesù aveva annunciato l’avvento del regno di Dio, mentre la folla proclama l’arrivo imminente del regno davidico. Sorge la questione se il regno di Dio si identifichi al regno di Davide. In realtà sembra che la folla delimiti la portata salvifica della venuta di Gesù. Ad essa interessa la restaurazione di un regno di pace e di bene secondo le attese messianiche del popolo. Da qui l’acclamazione: “Benedetto il veniente regno del padre nostro Davide”. Affermano che Davide è loro padre, con un senso di compiacenza, perché, in qualità di figli, possiedono il diritto di partecipare alla prosperità regale.
Se da una parte i molti osannanti accolgono Gesù, riconoscendolo quale Messia poiché in lui sta per irrompere il regno davidico, dall’altra le loro aspettative sono ancora ristrette all’ambito terreno e mondano. Non sono certo contrari o in opposizione a lui come i capi o i gruppi religiosi, tuttavia rimpiccioliscono l’evento messianico di Cristo. Più che direttamente alla persona di Gesù essi mirano all’attuazione della signoria davidica come compimento delle loro aspirazioni e desideri. Di fatto sorvolano sulla realizzazione concreta che Dio compie del suo regno attraverso Gesù e la sua opera.
Il cieco a Gerico aveva esclamato: Gesù figlio di Davide. Ora è la folla intera che lo acclama quale Messia. Anche Pietro e l’insieme del gruppo degli apostoli sa che Gesù è il Messia. Tuttavia i dodici conoscono gli eventi tragici con cui si compirà l’avvento del regno messianico.
L’approssimarsi osannante a Gerusalemme conserva un aspetto misterioso. L’entusiasmo della folla fa sussultare di gioia. Le parole proclamate aprono spiragli di vittoria e di benedizione. Ma nell’animo risuonano gli annunzi dolorosi del Figlio dell’uomo che dovrà soffrire molto, essere ucciso e risorgere. Quel momento di trionfo porta con sé l’aspettativa timorosa per sapere come realmente si svolgeranno le cose. Esultanza, attesa, turbamento sono i sentimenti che s’intrecciano e si accompagnano al Cristo, seduto sul puledro, che scende dal colle degli Ulivi e sale verso Gerusalemme.
6. Nel tempio lo sguardo attento e l’uscita verso Betania
La prima sorpresa si verifica subito, appena Gesù arriva in città. Il v. 11 ce ne da un assaggio mesto e incuriosito insieme. In primo piano sta la figura di Gesù, come fosse solo, quando in precedenza era attorniato da numerosa folla. È lui che entra a Gerusalemme; si dirige subito nell’area del tempio; guarda intorno ogni cosa. Per il momento non si capisce il significato di questo sguardo osservatore e attento. È l’unico gesto che compie entrando in Gerusalemme. Ad esso ci si aspetta una parola esplicativa. Per ora nulla. Egli rimane nel silenzio. Si potrà comprendere chiaramente nel giorno seguente, quando caccerà i mercanti dal tempio. Adesso resta solo da attendere.
Nel frattempo Gesù ha compiuto la sua opera, la giornata volge al termine, l’ora è già tarda. Non resta altro che dirigersi a Betania per il pernottamento. Si rimane comunque sorpresi. Non c’è nessuno a Gerusalemme che possa ospitare colui che è stato proclamato Messia? Non prende egli possesso della città, quale figlio di Davide? Al contrario, come uno dei tanti pellegrini, cerca ora un posto per pernottare e lo trova fuori della città, a Betania. Ma che tipo di re e di Messia è mai questo Gesù di Nazaret?
Con lui ci sono solo i dodici, non più la folla né il gruppo esteso dei simpatizzanti. Essi sono stati scelti perché stiano sempre con lui. Anche in questa ora lo affiancano. Con lui vanno verso Betania a riposare. Quale pensiero scorre nel loro animo? Cosa pensano dell’esperienza fatta in quel giorno? Quale le loro reazioni e le loro attese?
Al Getsemani: l’ora angosciosa e definitiva
Mc 14,32-52
32Giungono intanto in un podere di nome Getsemani;
ed egli dice ai suoi discepoli: “Sedete qui, mentre io prego”.
33Quindi prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni,
e cominciò ad aver terrore e angoscia.
34E dice loro: “L’anima mia è triste fino a morte.
Rimanete qui e vegliate”.
35E, andando avanti un po’,
si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile,
passasse da lui quell’ora.
36E diceva: “Abbà, Padre. Tutte le cose (sono) possibili a te.
Togli questo calice da me; ma non ciò che voglio io, ma tu”.
37E viene e li trova addormentati.
E dice a Pietro: “Simone, dormi?
Non hai avuto forza di vegliare una sola ora?
38Vegliate e pregate, affinché non entriate in tentazione.
Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”.
39E di nuovo, essendosi allontanato,
pregò (dicendo) la stessa parola.
40E di nuovo, tornato, li trovò addormentati.
I loro occhi, infatti, erano appesantiti
e non sapevano che cosa rispondergli.
41E viene la terza volta e dice loro:
“Dormite ormai e riposate. Basta. È giunta l’ora. Ecco,
il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani dei peccatori.
42Alzatevi, andiamo. Ecco, chi mi consegna è vicino”.
43E subito, mentre ancora parlava,
giunge Giuda, uno dei dodici,
e con lui una folla con spade e bastoni
da parte dei sommi sacerdoti, degli scribi e degli anziani.
44Ora colui che lo consegnava aveva dato un segno,
dicendo loro: “Colui che bacerò è lui.
Impadronitevi di lui e portatelo via in modo sicuro”.
45Appena giunto, subito avvicinatosi a lui, gli dice:
“Rabbì”. E lo baciò.
46Quelli, allora, gli misero le mani addosso
e si impadronirono di lui.
1. La tristezza e il terrore davanti a tre apostoli
Subito viene precisato il luogo dove giunge Gesù assieme ai discepoli e da dove verrà poi prelevato: il Getsemani. Egli manifesta loro l’intenzione chiara per cui si è recato in quel posto. Sono le ultime ore di libertà prima che “giunga l’ora” fatidica e sia “consegnato nelle mani dei peccatori” (v. 41b). Egli, che conosce ogni cosa, desidera rivolgersi a Dio e immergersi nel suo volere, affinché tutto ciò che sta per attuarsi corrisponda al compimento dei suoi disegni. Lo dice ai suoi: “Sedete qui, mentre io prego” (v. 32b).
La sua preghiera è solitaria, a tu per tu con Dio; gli altri possono ancora rimanere seduti; poi prende con sé soltanto Pietro, Giacomo e Giovanni; infine si separa anche da costoro.
Per il passato, i tre apostoli, quali testimoni in casa di Giairo, hanno sperimentato come la morte non sia tanto potente e feroce quando è presente Gesù, ai cui ordini la fanciulla dodicenne si è subito alzata. Sono stati presenti poi sul monte, quando hanno contemplato Gesù trasfigurato e hanno udito la voce di Dio che lo dichiarava suo Figlio, in un contesto che li orientava verso la morte e la risurrezione. Adesso cosa altro di nuovo devono sfidare? Quale esperienza imprevista devono ancora affrontare? Perché sono condotti a restare accanto al maestro?
Colui che ora hanno davanti agli occhi non appare l’uomo forte, famoso, sfolgorante nella luce divina, al contrario un individuo terrorizzato e angosciato: “Cominciò ad aver terrore e angoscia” (v. 33b). Due termini che esprimono contemporaneamente sia la repulsione e il timore davanti a quanto lo aspetta sia la interiore amarezza e oppressione, come fosse pesantemente schiacciato da una forza misteriosa e irrefrenabile, di fronte alla quale lui stesso ne resta accasciato senza possibilità di ripresa e di rivincita. Loro lo vedono lì, abbattuto, sotto un realismo di sofferenza inaudita e di cui non possono fare a meno di calcolarne l’enorme pesantezza. Probabilmente non ne capiscono ancora la ragione; restano anch’essi affranti e ammutoliti. Eppure devono stare vicino al maestro, quasi per assaporare tutto il tremendo dolore. D’altronde sono loro i depositari di quel mistero che stanno vivendo e osservando; a questo scopo sono stati chiamati dall’inizio, per condividere questo momento sono stati ammaestrati e guidati, attualmente sono coinvolti fino all’estremo limite di un evento infinitamente superiore alle loro umane capacità. Gesù li tiene accanto non solo per un comprensibile desiderio di compagnia e di compartecipazione, ma ancor più per renderli concretamente associati alla sua ora di sconfitta e di salvezza. Anche per essi si compie un’altissima missione, da cui non possono sottrarsi.
I tre devono sapere e proprio a loro Gesù esterna la sua interiore afflizione: “L’anima mia è triste fino a morte” (v. 34a). Ne fa vedere e sentire il tenore gravissimo; non si nasconde davanti a loro, non ha paura di farsi cogliere nella sua massima debolezza a livello psicologico e spirituale. Tutto essi devono conoscere di lui, entrare fino in fondo nel suo essere vero e reale. È là, anche adesso si rivela, similmente al monte, ma sotto la realtà pienamente umana, come là si era manifestato nello splendore divino. È lo stesso Gesù, è il loro autentico maestro.
Poco dopo si distacca e va lontano anche da Pietro, Giacomo e Giovanni. Il suo travaglio e il suo animo pieno di terrore possono trovare luce e forza solo in Dio. Per questo si rivolge direttamente a Lui, cadendo a terra, preso dalla tristezza. Il testo marciano espone succintamente il contenuto della richiesta che sgorga dal suo cuore angosciato. Egli anela e sospira affinché quell’ora tremenda che sta per giungere vada oltre, non lo riguardi personalmente, se questo è possibile. Ma ci si chiede chi abbia il potere di attuare tale eventualità. Forse spetta agli uomini che fra poco si avventano contro di lui. In quali mani è posto il destino cui è stato sottomesso?
2. La forza e la luce di Gesù nell’affidamento al Padre
Il testo apre uno sguardo sull’animo di Gesù, indicando alcune espressioni che sorgono dall’intimo e rivelano non solo lo stato interiore, ma anche la sua costituzione fondamentale nel rapporto primario che lo unisce a Dio. Gesù, gettatosi a terra, si rivolge a Colui che chiama ed è suo Padre. Si nota una strana situazione: da una parte egli si immerge nella polvere come un individuo totalmente avvinto ad essa e soppiantato dalla propria desolazione umana, dall’altra il suo spirito si eleva fiduciosamente verso le altezze divine, dove ritrova le coordinate della sua unione filiale con Dio Padre. Bassezza estrema ed elevazione eccelsa: questa la manifestazione e la realtà del suo essere.
Il termine “Abbà”, solo qui usato in Marco e unico tra gli evangelisti, allude al modo usuale dei bambini di rivolgersi al loro genitore. Un appellativo cordiale e fiducioso. Sembra che Gesù in questo modo voglia toccare il cuore paterno di Dio, farlo sussultare, piegarlo ai suoi desideri. Ma nello stesso tempo sa che il Padre vuole sempre il bene del Figlio e a lui si abbandona confidente. Si rivela la dimensione propria di Gesù nel suo essenziale rapporto a Colui che lo ha generato, da cui attinge la luce e la forza per andare incontro con disponibilità piena all’attuazione del progetto salvifico.
Alla trasfigurazione la figliolanza di Gesù è rivelata dalla voce del Padre celeste diretta ai tre apostoli, ora Gesù, in solitudine, si rivolge a Dio riconoscendolo Padre. Ne consegue un’amorevole vicinanza tra lui e il Padre, in modo che la sofferenza e la croce che si abbatteranno su di lui non annullano la reale paternità di Dio, anzi la rivelano e la rafforzano. L’Abbà, sgorgato dal cuore del Figlio, fa vedere da un verso che il Figlio si riversa pienamente nelle mani del Padre in una effusione di concordanza e di intenti, dall’altro mostra che il Padre è Colui che riversa nel Figlio docile la suprema volontà di portare ad attuazione la sua oblazione cruenta. I due sono avvinti da una reciproca e radicale sintonia, al di sopra di ogni dolorosa contingenza che possa avventarsi contro Gesù.
In tale simbiosi tra Padre e Figlio, resta a Gesù uno spiraglio di speranza, proseguendo nella preghiera e sapendo di rivolgersi a Dio in quanto Dio, nella consapevolezza della sua onnipotenza: “Tutte le cose (sono) possibili a te” (v. 36a). Si apre un varco nel suo cuore, quello che il calice di sofferenza e di morte possa essere allontanato. Il potere assoluto di Dio può prevalere sulle forze incombenti del male e quindi sottrarre il Figlio al grande dolore. Ma oltre alla potenza e alla forza si fa avanti la santa volontà di Dio, la quale rientra perfettamente nella dimensione della sua paternità.
Dio non risponde alla preghiera di Cristo con una manifestazione teofanica né con un intervento prodigioso. È Gesù, che pur desiderando che il calice sia tolto, tuttavia implora che sia fatta la volontà divina. In questo lancinante momento principalmente si compie la sua vera morte. Egli muore a se stesso, alla sua volontà, ai suoi desideri, rimettendosi completamente alla prospettiva paterna con l’impegno di tutte le proprie forze. Là, prostrato sulla nuda terra, avvolto dalla tristezza più acuta, tutta la sua persona si pone in assoluto atteggiamento filiale di oblazione al volere supremo. Lui ormai ha finito il suo compito; in questo ultimo atto di abbandono consuma la sua determinazione d’inviato dal Padre quale Figlio fino nelle intime fibre dell’essere. In tal modo rivela che non appartiene più a se stesso, che non ha alcun diritto da far prevalere, che la sua libertà personale resta affrancata totalmente da sé per avvitarsi a quella del Padre. Ora tutto è fattibile e tutto va eseguito coerentemente: “Non ciò che voglio io, ma tu” (v. 36b)
Giunto a tale cruciale contingenza, anche il lettore prende coscienza che i susseguenti fatti non certificano che Dio non riesca a vincere sulle forze avverse che si abbatteranno su Gesù né che Dio non sia dalla parte di suo Figlio, come se lo avesse rigettato, ma essi corrispondono al progetto divino per la salvezza degli uomini. Spetta al Figlio adeguarsi a questa altissima sapienza progettuale, come mostra di fare.
3. Il sonno e l’ottenebramento degli apostoli
Quando il suo animo si è rafforzato aggrappandosi al Padre, Gesù si volge verso i suoi, come se gli avesse persi di vista, per costatare la loro situazione spirituale, il loro modo di essere e di porsi davanti a quell’ora tremenda. Per questo motivo egli torna subito dai tre apostoli, che aveva sollecitato a vegliare rimanendo poco lontano da lui. Non si ripiega solo in se stesso né si chiude dentro il suo tragico destino, ma il suo cuore si dirige anche verso di loro. Interrompendo la preghiera per tre volte, Gesù indica la sua attenzione nei confronti dei tre e si trova come dilaniato: interiormente si sente sofferente e angosciato; la volontà di Dio da adempiere appare chiara; tuttavia il pensiero e la premura sono rivolti proprio a loro. Cosa faranno senza di lui? Aveva ordinato loro di stare svegli, li trova invece addormentati. Da qua si staglia netto il loro distacco che li porterà a fuggire o a rinnegarlo, come succederà a Pietro.
Poc’anzi Gesù si era intrattenuto con il Padre, adesso si appella ai discepoli e in primo luogo a Simone, il quale non possiede neanche la forza di vegliare: “Simone, dormi?” (v. 37b). La debolezza della carne preme sullo spirito umano. Che fare in questo frangente? Gesù raccomanda loro non solo di non dormire, ma di pregare, cioè di affidarsi a Dio, come d’altra parte sta facendo lui. La necessità e lo scopo della preghiera sono dati dalla tentazione che sta per abbattersi su loro. Essi non devono confidare su se stessi. Anche se la disponibilità interiore risulta generosa e pronta, il pericolo nasce proprio dalla fragilità della carne condizionata dai limiti e dalle insicurezze.
Per la seconda volta Gesù prega il Padre con “la stessa parola”, come per confermare e rafforzare l’unione della sua volontà con quella paterna, in modo da non lasciarsi sviare in alcun modo dalla totale accondiscendenza. Al contrario il testo fa vedere come il rapporto tra Gesù e i discepoli si faccia sempre più distante e discordante. Tutto ciò comporta la conclusione umanamente triste, ma spiritualmente vigorosa: l’unica forza e l’unico orientamento del Figlio rimane la fedeltà al Padre. Lì si scopre la vera forza che si effonde nell’animo di Cristo e lo rende ormai deciso e sollecito. Le creature umane si distaccano da lui e si disperdono. La conseguente solitudine non costituisce un impedimento per proseguire l’attuazione della sua ora.
Per la seconda volta egli si avvicina a loro: “E di nuovo, tornato, li trovò addormentati” (v. 40a). Non sono né in comunione con Dio attraverso la preghiera né in sintonia con quanto Gesù dice loro. Di fatto sono avvolti da un alone di appesantimento e di ottenebramento non tanto nell’ambito fisico, quanto piuttosto a livello spirituale, che si riflette naturalmente sulla stanchezza corporea: “I loro occhi, infatti, erano appesantiti” (v. 40b); sono come avulsi da se stessi e non idonei a captare almeno qualche aspetto di un momento così drammatico: “Non sapevano che cosa rispondergli” (v. 40c). Da qui si capisce l’apprensione di Gesù, il quale si rende conto che non si tratta di una ingenua e tollerabile spossatezza umana, ma di un attacco poderoso delle potenze oscure. Di fronte ad esse l’unica arma vincibile è propriamente la preghiera, per mezzo della quale opera l’onnipotenza divina.
Il testo parla di una terza volta in cui non si dice esplicitamente della sua preghiera, ma che si presuppone, poiché torna da loro e dice: “Dormite ormai e riposate” (v. 41b). Ormai non ha più importanza per loro vegliare e pregare. Il tempo della preparazione è finito, in quanto “è giunta l’ora”. Essi possono dormire e riposare, perché non desidera più che passi quell’ora, anzi gli va incontro con decisione e prontezza: “Basta”. Se si è fatto vicino colui che tradisce Gesù, affinché il Figlio dell’uomo sia consegnato “nelle mani dei peccatori”, egli dice loro: “Alzatevi, andiamo”. Ora non è più tempo neanche di dormire, occorre muoversi fisicamente, anche se spiritualmente addormentati. Il nemico avanza e sta lì accanto per consumare il misfatto del tradimento: “Ecco, chi mi consegna è vicino” (v. 42).
4. Giuda e la turba con spade e bastoni
Il testo evangelico prosegue narrando come si conclude la vicenda vissuta nell’orto del Getsemani: con l’arresto di Gesù, che costituisce il punto di arrivo di quanto è stato detto e fatto in precedenza. Adesso si realizzano le sue puntuali e precise previsioni: il sinedrio riesce ad effettuare lo scopo deposto nel proprio desiderio (14,1); Giuda compie l’impresa per la quale aveva preparato il piano (14,10-11.18-21); i discepoli, non capaci di superare la tentazione, fuggono prontamente, come ci si attendeva.
Per altro verso l’arresto di Gesù diventa l’avvio per quello che avverrà dopo, cioè la sua consegna nelle mani degli uomini. Non più libero fisicamente, sarà trasferito di mano in mano: da Giuda al sinedrio, a Pilato, ai soldati. Pertanto la sua cattura al Getsemani segna una svolta decisiva.
La narrazione pone in primo piano l’arrivo del traditore: “E subito, mentre ancora parlava, giunge Giuda” (v. 43a). Il riferimento alle parole che il maestro sta dicendo ai tre apostoli evidenzia ancora una volta che egli non è preso alla sprovvista, come in realtà pensavano Giuda, il sinedrio e la turba. Pertanto il piano messo in atto in tutti i dettagli risulta di per sé inutile. La ragione per cui Gesù viene concretamente catturato sta nel fatto che è giunta l’ora per lui. È lui che si fa avanti e affronta i nemici. Quelle “spade e bastoni” (vv. 43.48), simbolo di forza umana, avrebbero servito ben poco se la volontà del Padre e l’adesione del Figlio non si fossero attuate.
I versetti iniziali si soffermano su Giuda e si dilungano nell’analizzare le sue azioni e i particolari che aveva predisposto. Anzitutto si presenta come condottiero di una turba ben armata, con lo scopo di dirigerla verso Gesù. In qualità di apostolo conosce gli spostamenti del maestro e può eseguire facilmente il ruolo di capitano. Al riguardo però non è tralasciata la notificazione di coloro che primariamente intendono eliminare Gesù e che sono riconosciuti in tre gruppi, di cui è composto il sinedrio: sommi sacerdoti, scribi, anziani. Il testo lo segnala con precisione: “Con lui una folla con spade e bastoni da parte dei sommi sacerdoti, degli scribi e degli anziani” (v. 43b).
Dietro l’apparente baldanza di colui che conduce la ciurma, si nasconde un essere ambiguo e abominevole, il quale fa un gesto di amicizia, quello del bacio, per sé un atto benevolo e rispettoso, che però è stato assunto come segno di identificazione della vittima e quindi causa del suo sequestro: “Colui che bacerò è lui” (v. 44b). Ciò che preme al traditore è che venga arrestato e condotto “in modo sicuro”. A dire il vero, mentre Gesù è trascinato via sotto buona guardia, Giuda si allontana definitivamente da lui e anche dalla trama del racconto. Marco non parlerà più di lui. Non ha importanza sapere cosa abbia fatto in seguito e quale sia stata la sua fine miserevole. Devono rimanere impresse al lettore le parole dette da Gesù nei suoi riguardi: “Bene per lui, se non fosse nato quell’uomo” (v. 21).
Oltre al bacio, Marco riporta il saluto di Giuda a Gesù con la qualificazione di “rabbì”. Da una parte lo indica come maestro, dall’altra lo fa arrestare come un ladro. Tale contraddittorietà sarà chiarita da Gesù stesso alla fine del brano, rivolgendosi a coloro che erano venuti a prelevarlo.
In effetti dal comportamento del traditore fuoriescono la contraffazione e la meschinità della sua persona. Si fa avanti di fronte al sinedrio, come fosse un uomo coraggioso e ardito, mentre cerca solo del denaro; nel cenacolo, dopo la smascherazione di Gesù, si finge innocente e inconsapevole, ponendosi vergognosamente alla stregua degli altri undici, mentre lui sa di aver complottato il tradimento; adesso nell’orto si presenta quale comandante di un gruppo di soldati, mentre è soltanto l’inviato e lo strumento del sinedrio; si avvicina a Gesù chiamandolo maestro, mentre lo considera un malfattore; manifesta tenerezza con il bacio di amicizia, mentre fa di esso la segnalazione del condannato. Dietro tali connotazioni appare idonea l’idea di Marco di farlo scomparire nel buio perdendo di lui ogni traccia.
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