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LA COMPASSIONE PER I SOFFERENTI


Introduzione

Nel compiere i miracoli Gesù manifesta un aspetto significativo e profondamente umano della sua personalità e del suo stile di vita. Egli infatti partecipa vivamente alle sofferenze degli uomini, al loro stato di miseria e di malattia, fino a prendere sopra di sé le infermità di tutti (Mt 8,16-17). Non agisce rimanendo al di fuori, come estraneo (Gv 10,5), ma sente e condivide il peso dell’umanità sofferente; per questo vuole alleviare il male, risanare i corpi e consolare i cuori. Si fa compartecipe del dolore degli altri dal di dentro del suo animo, vibrando di un amore intenso che lo porta a guarire le piaghe, a moltiplicare i pani per la gente affamata, a fare di tutto per sollevare i più poveri e i più bisognosi. Di fronte al dolore, alla fatica, alla morte (Gv 11,35.38), egli si commuove, provando quel sentimento profondo di commiserazione in forza del quale il dolore degli altri diventa il suo dolore.
Assumendo in sé, nella disponibilità dell’amore, le tribolazioni anche fisiche, egli ne diventa il vero guaritore e salvatore, colui che accoglie il fratello ammalato prima nel suo cuore, guarendolo con l’amore, e poi lo ristabilisce in salute. La forza straordinaria dei suoi miracoli sta anche in questa sensibilità e compassione dell’animo, oltre che nella potenza divina.

1. La commozione per una madre afflitta
Nell’incontro con la vedova di Nain (Lc 7,11-17) si vede bene la profonda sensibilità di Gesù. Ci si trova davanti ad una situazione umanamente tragica: un morto viene portato al sepolcro per la sepoltura; vi è accanto una donna, indicata nella stretta unione che la lega al cadavere, è la madre; si dice che il figlio morto è unico e che essa è vedova. La folla numerosa segue il feretro, si associa alla madre, condividendo un dramma non solo familiare, anche cittadino. D’altro verso Gesù si dirige alla volta di Nain, con i discepoli e la folla che lo accompagnano. I due gruppi, il corteo funebre e la comitiva al seguito di Cristo, procedono in direzione opposte e si incrociano. L’evangelista non si sofferma sui sentimenti che albergano nell’animo delle persone, non dice che la donna piange; lo farà intendere Gesù. I discepoli non pregano il Maestro di dare il suo aiuto per alleviare quella situazione pietosa; essi non intervengono. Neanche la donna chiede qualcosa. Nemmeno la gente intercede a suo favore.
In questo modo Luca vuole mettere in evidenza l’iniziativa di Gesù. Se anche lui fosse passato accanto, senza fermarsi, nessuno dei presenti avrebbe conosciuto la salvezza. Ma non è stato così. Cristo mostra un’attenzione particolare, una profonda sensibilità, un’accortezza del tutto originale. Egli si ferma, consapevole che lì c’è sofferenza, lutto, dolore. È venuto precisamente per portare il lieto annuncio ai poveri.
Sebbene nessuno chieda l’aiuto, Gesù interviene in modo inaspettato e sorprendente. La salvezza non va concepita esclusivamente come risposta alle attese dell’uomo. Essa sovrasta le aspettative umane, in quanto è dono gratuito di Dio, un intervento di valore superiore inatteso, non programmato, frutto non di un calcolo o di un progetto alla portata delle capacità umane.
Resta il fatto che nessuno dei presenti implora qualcosa, anche perché il giovane è già morto. A chi si potrebbe domandare aiuto in una situazione estrema come questa? Chi può avere un rimedio contro la morte? Questa costituisce il confine invalicabile per qualsiasi intervento sanatorio: né la medicina, né le cure premurose, né la ribellione, né alcun’altra cosa possono offrire un rimedio. Non esiste possibilità di vincere la morte.
La morte incute terrore non solo a quelli che muoiono, ma anche certamente a coloro che restano vivi. In questo senso Luca indica il giovane defunto e insieme la madre e i concittadini che soffrono con lei.
La donna è vedova; la morte l’aveva separata dal marito. La stessa morte ora la dissocia definitivamente da suo figlio, l’unico che aveva. In tal modo la morte strappa via anche la sua maternità effettiva; la rende inerte, infeconda, sola. Si ritrova una donna abbandonata a se stessa, senza più nemmeno il sostegno economico, procurato dal marito o dal figlio.
Luca dichiara: “Il Signore”; non dice semplicemente che Gesù l’ha vista, ma usa un titolo a lui caro, il Signore. Gesù è il Signore della vita, colui che ha il potere di liberare dalla morte. Ciò che sorprende è l’accostamento dell’evangelista tra questo titolo altamente onorifico e l’atteggiamento di compassione verso la donna. Gesù è Signore, ma è capace di avvicinarsi alla creatura umana. Un “Signore” che sta alla pari con Dio e che insieme si commuove con l’uomo: un binomio insolito, quasi contraddittorio.
Il testo aggiunge: “Vedendola”, cioè vedendo lei, per evidenziare che il Signore si interessa prevalentemente della donna e il suo sguardo si fissa su di essa. La sua attenzione non si posa sul morto, ma sulla madre di lui che piange. Il fulcro, attorno a cui si muove il brano, non è tanto la vicenda dolorosa della morte, né il ritorno alla vita, ma è propriamente lei, quella donna, una madre, già vedova, che ha perduto il figlio unico. Gesù la vede e ne percepisce tutta l’angoscia. L’atto di “vedere” di Gesù non corrisponde a uno sguardo generico, distratto o superficiale, né a un atto scrutatore intriso di curiosità. Qualcosa di più profondo, come si vedrà, esprime l’occhio di Cristo puntato su quella donna.

2. Il dono di una nuova maternità
“Si commosse per lei”, con un amore viscerale, che viene dall’intimo dell’essere. Vedere e sentire compassione: due atti tra loro intrinsecamente correlati; presi insieme offrono la visione di un animo interiormente ricco e sensibile, come quello di Gesù. Dice alla donna: “Non piangere”. Con queste parole Gesù svela i sentimenti della madre, la sua sofferenza; insieme la esorta al conforto e alla speranza. Egli mostra che stava piangendo, quasi per destare negli astanti il suo medesimo sentimento e invitarli a guardare questa donna come la guarda lui, per sentirne compassione.
“Accostatosi, toccò la bara”. Ora il racconto si trasferisce dalla madre al figlio. Gesù si fa vicino fino a toccare la bara, oltrepassando i limiti delle prescrizioni giudaiche e mettendosi a contatto diretto con quell’essere inanimato, stretto dal morso della morte.
Al gesto di Gesù il corteo si arresta: “I portatori si fermarono”. Questi camminano diretti al sepolcro, orientati alla definitiva scomparsa del giovane, con la tumulazione del suo cadavere. Tale movimento di disintegrazione totale è interrotto in modo decisivo e radicale da Gesù. Egli non fa arrestare il feretro per benedire il cadavere o per pronunciare un discorso di commiato. La realtà nuova che appare è ben diversa: il tragitto verso la tomba non si attuerà. Il giovinetto ricupererà l’energia vitale, muovendosi in senso opposto rispetto al corteo funebre, in direzione della vita, non della tomba. Con Gesù il sepolcro non costituisce l’ultimo luogo dell’esistenza umana.
Le sue parole ne sono una testimonianza: “Giovinetto, dico a te, alzati” (egheirō: svegliarsi, e quindi alzarsi). Il suo invito risulta onnipotente ed efficace: “Dico a te”. Gesù non parla nel nome di Dio, ma in prima persona, in quanto egli possiede la stessa autorità e potenza divine.
Avviene così l’imprevedibile: “Il morto si levò e cominciò a parlare”. Ecco il fatto nuovo e sconvolgente, pur nella sua semplicità e naturalezza. Il giovane è tornato all’esistenza e ne mostra la tangibilità, perché da disteso si pone a sedere, da silenzioso si mette a parlare. Si coglie subito il passaggio straordinario dalla morte alla vita, dalla staticità al movimento, dal mutismo alla loquacità. Chi avrebbe potuto neanche pensare una simile cosa? Un evento veramente inconsueto e inatteso. Da qui lo sconcerto, la meraviglia, l’esplosione di gioia e la glorificazione resa a Dio. In effetti solo Dio può compiere azioni del genere; un Dio che si fa accanto e agisce concretamente in Gesù.
Luca annota che “egli lo diede a sua madre”: è l’ultimo gesto di Cristo, quello di riconsegnare il figlio alla madre. All’inizio egli mostrò di aver pietà di lei, poi si avvicinò al figlio e lo toccò, infine la sua attenzione ritorna sulla madre. Questa insperatamente ritrova la sua maternità, nel momento in cui riceve il figlio dalle mani di Gesù; una maternità nuova, perché, quando accoglie come suo figlio questo giovane, ella sa che la vita di lui ora non proviene da lei ma dal Signore. Quel figlio è un dono, non un suo possesso. In forza dell’intervento prodigioso, la madre e il figlio recuperano in modo nuovo la loro identità. Ne consegue la gioiosa sorpresa che Gesù opera non solo la risurrezione del figlio, che torna vivo tra le braccia della madre, ma anche la fioritura di una nuova maternità nella donna che ritrova il figlio. Per ogni donna l’aspetto materno è indiscutibilmente quello più importante e fondamentale. A questa vedova di Nain il figlio, strappatole dalla morte, viene restituito da Gesù. Allora quel figlio assume un aspetto diverso, è ricoperto di una luce nuova: si riconosce come un vero dono, il dono del Signore della vita.

Conclusione
La morte aveva separato la madre dal figlio, estirpandolo dall’affetto materno; Gesù lo ridona, facendo rifiorire l’amore di madre. Solo lui, quale unico liberatore dalla morte, ha il potere di riunirli nuovamente. Per suo mezzo madre e figlio si riabbracciano e di nuovo è resa ad essi la vita in comunione reciproca. Il senso della vita non sta nel vivere per se stesso, ma per l’altro in uno scambio di donazione vicendevole. Il giovane può essere di nuovo sostegno e aiuto per la madre, mentre questa è pronta di nuovo a dare se stessa per il figlio. Ambedue, ritrovandosi insieme, si riscoprono nella loro verità e si uniscono in un amore più forte e sincero. Si può dire veramente che tutti due, madre e figlio, acquistino una esistenza nuova; la risurrezione tocca l’uno e l’altra, non solo a livello fisico e materiale, ma, più profondamente, in una rigenerazione spirituale che schiude il cuore alla fede.

 

Don Renzo Lavatori


 

 

 

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