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    (26-02-2012)
    
    
    La vittoria di Cristo contro il maligno 
e l’annuncio del Regno di Dio
    (12) Subito lo Spirito lo sospinge nel deserto
    (13) e stava nel deserto quaranta giorni, tentato da satana; 
    stava con le fiere e gli angeli lo servivano.
    (14) Dopo che Giovanni fu consegnato, Gesù andò nella Galilea,
    proclamando l’evangelo di Dio 
    (15) e dicendo: 
    “È compiuto il tempo e il regno di Dio si è fatto vicino; 
    convertitevi e credete nell’evangelo”.
La narrazione delle 
tentazioni (Mc 1,12-13) non si ferma sui particolari, ma vuole dimostrare la 
fermezza di Gesù, la sua disponibilità totale a seguire un messianismo conforme 
alla volontà di Dio, di senso totalmente opposto alle prospettive umane. Il 
deserto nella tradizione giudaica indica il luogo della prova e della sofferenza 
(cf. Dt 8,2s). Esso ricorda i quaranta anni trascorsi da Israele 
nell’isolamento: un’epoca di stenti, di ostacoli e di purificazione. Proprio in 
questo ambiente, così ricco di risonanze bibliche, il diavolo mette alla prova 
Gesù, una prova che sembra abbracciare tutto il periodo dei quaranta giorni. 
Satana non riesce a piegare la volontà di Cristo, il Figlio prediletto e l’uomo 
giusto, il quale resta decisamente sottomesso al disegno del Padre e in piena 
comunione con lui. Marco non intende tanto descrivere le tentazioni, la qualità 
o il numero, quanto sottolineare lo stato di fiduciosa sopportazione da parte di 
Gesù e la sua opposizione al maligno. Egli ne esce vittorioso.
Alla fine vive in comunione con animali selvaggi, mentre gli angeli lo servono. 
Ciò probabilmente anticipa l’evento escatologico della pace universale, secondo 
quanto annunciato anche da Isaia (cf. 11,6; 65,25). Con Cristo inizia la 
restaurazione dell’armonia nell’universo e tutto viene rinnovato; ormai è giunto 
il tempo ultimo e definitivo della salvezza. Il servizio degli angeli indica 
ugualmente la condizione di amicizia con Dio e con i suoi ministri, quale segno 
concreto della realizzazione salvifica.
Con gli altri due versetti (Mc 14-15) il Vangelo affronta l’inizio della 
missione di Gesù in Galilea. Prima di addentrarsi nei particolari della sua vita 
pubblica, nelle determinate e circoscritte azioni del suo ministero, nei suoi 
interventi salvifici e liberatori, Marco presenta un sommario alquanto succinto.
Anzitutto si dichiara che Gesù inizia la missione dopo che Giovanni fu 
arrestato. La prigionia pone fine all’attività del Battista. La sua funzione è 
terminata, si è conclusa, dal momento che ha introdotto la persona attesa. Il 
più forte, colui al quale non è degno di sciogliere i legacci dei sandali, colui 
che battezzerà nello Spirito Santo è ormai giunto. Il precursore può tirarsi da 
parte.
Gesù si mostra come un banditore, un araldo, un annunciatore della buona 
notizia, per diffondere la quale percorre in lungo e in largo la Galilea. 
Nell’antichità erano molti i banditori che erano mandati dai sovrani e passavano 
di luogo in luogo a notificare ordini, avvisi, eventi significativi. Anche
     Gesù ha una 
notizia da dire, che non proviene da un’autorità umana, ma da Dio, in quanto 
proclama la venuta del suo regno. Egli quindi si presenta come l’inviato da Dio, 
in modo che alza la voce per far risuonare il messaggio che Dio vuol comunicare 
o, meglio, quello che sta per fare e quello che desidera che gli uomini 
facciano. Gesù dichiara che “è compiuto il tempo”. Un’affermazione densa di 
portata salvifica e insieme decisamente vincolante. Non c’è da indugiare o da 
tentennare: il tempo è giunto al suo traguardo, oltre o fuori del quale non 
esiste altra eventualità.
Gesù ha una 
notizia da dire, che non proviene da un’autorità umana, ma da Dio, in quanto 
proclama la venuta del suo regno. Egli quindi si presenta come l’inviato da Dio, 
in modo che alza la voce per far risuonare il messaggio che Dio vuol comunicare 
o, meglio, quello che sta per fare e quello che desidera che gli uomini 
facciano. Gesù dichiara che “è compiuto il tempo”. Un’affermazione densa di 
portata salvifica e insieme decisamente vincolante. Non c’è da indugiare o da 
tentennare: il tempo è giunto al suo traguardo, oltre o fuori del quale non 
esiste altra eventualità. 
Se da una parte il messaggio procura gioia, dall’altra offre un ammonimento a 
non lasciare sfuggire questo tempo, a riconoscerlo nel suo significato vitale e 
ad accoglierlo nel modo conveniente, altrimenti si cambia in giudizio e in 
condanna definitiva. Per questo esso si fa insieme annuncio e chiamata. Dopo 
aver affermato con l’indicativo presente che il tempo è compiuto e che il regno 
di Dio è vicino, Gesù si rivolge agli ascoltatori in forma imperativa: 
“Convertitevi e credete nell’evangelo”. Gesù chiede la conversione, la quale 
comporta un cambiamento radicale di mentalità, in riferimento ai desideri, ai 
progetti, ai modi di pensare e di sentire puramente umani e terreni. Occorre 
tagliare corto con il precedente modo di vedere il mondo e ri-orientare tutta la 
propria esistenza in direzione del regno che viene ed è in atto. È questione di 
un vero capovolgimento della propria direttiva esistenziale. 
Gesù ne fa un comandamento irremovibile (“convertitevi”), per segnalare che non 
è in ballo una decisione facoltativa, ma occorre prendere sul serio la 
risoluzione piena e totalizzante del ritorno a Dio, che si fa vicino con il suo 
dominio salvifico. Alla fine Gesù aggiunge ancora un invito: “Credete 
nell’evangelo”, richiamando gli uomini alla disponibilità ad accogliere ciò che 
lui dice, a fidarsi di quanto Dio sta per fare per mezzo di lui. Credere 
significa riconoscere come vere e valide le realtà da lui annunciate, per 
costruire su di esse la nuova vita. Si tratta di fidarsi di Lui, come unica 
Parola di vita, di salvezza e di amore.
 
    (04-03-2012)
    
    
    
    L'esperienza 
    divina sul monte (Mc 9,2-9)
2In quel tempoi Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni
e li conduce su un alto monte, in disparte, loro soli. 
Fu trasfigurato davanti a loro,
3e le sue vesti divennero splendenti, bianche assai, 
che nessun lavandaio sulla terra può renderle così bianche.
4E fu visto da loro Elia con Mosè, ed erano in colloquio con Gesù.
5Allora Pietro, rispondendo, dice a Gesù:
“Rabbi, bene è che noi siamo qui; 
faremo tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia”.
6Non sapeva infatti cosa rispondere, poiché furono spaventati.
7Allora ci fu una nube che li adombrò e ci fu una voce dalla nube: 
“Questi è il Figlio mio, l’amato; ascoltate lui”.
8E improvvisamente, guardandosi attorno, 
non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro.
9Mentre essi scendevano dal monte, ordinò loro 
di non raccontare a nessuno le cose che avevano visto, 
se non quando il Figlio dell’uomo sarebbe risuscitato dai morti.
Il maestro conduce i tre “su un alto monte”, non tanto per il bisogno di 
solitudine e di preghiera. Nell’AT la montagna è il luogo della rivelazione 
divina per eccellenza, il trono su cui risiede e si manifesta Jhwh. Sul Sinai 
Mosè incontra Dio e riceve le tavole della legge; anche Elia vi sale in quanto 
profeta perseguitato, vi si rifugia e lassù incontra il vero Dio per ricevere 
nuovi incarichi. Pertanto Gesù vuole far entrare i tre in una dimensione che li 
pone in contatto con Dio e con la testimonianza che il Padre darà in favore di 
Gesù dichiarandolo suo Figlio.
Giunti sul monte inizia una solenne rivelazione. Il testo afferma repentinamente 
che Gesù “fu trasfigurato”. Il verbo, posto al passivo (metemorphōthē), allude 
all’azione divina. Solo Dio può operare una trasformazione così sublime e 
folgorante, che non ha alcun paragone di confronto. Marco lo sottolinea con 
sagacia, facendo riferimento all’azione umana di un lavandaio, che tuttavia non 
riesce a rendere così bianche le vesti risplendenti di Gesù. Ne deriva che egli 
non è soggetto ad alcuna azione umana, ma è immerso nella sfera divina.
In effetti le sue vesti, data la loro luminosità, splendono di una bianchezza 
ultraterrena, tipica degli esseri celesti che appartengono al mondo divino. Gesù 
così contrae un aspetto sovraterrestre.
Il testo evangelico prosegue: “E fu visto da loro Elia con Mosè, ed erano in 
colloquio con Gesù” (v. 4). Mosè ed Elia rappresentano le due figure dell’AT 
legate al monte Oreb o Sinai. Mosè ricorda la conclusione del patto tra Dio e 
Israele e rimanda conseguentemente al dono della legge; Elia indica la lotta dei 
profeti perché il popolo d’Israele rimanesse fedele all’alleanza. La presenza di 
Mosè e di Elia vuole significare che su questa montagna, come nuovo Sinai, in 
virtù di Gesù si sta compiendo la salvezza definitiva. La legge e i profeti, da 
essi rappresentati, confermano l’attuazione in Cristo del piano di Dio; in lui 
tutta la storia e le istituzioni di Israele trovano il loro compimento; in lui 
si realizza il nuovo esodo, la nuova definitiva pasqua.
Alla luminosa rivelazione segue immediata la reazione di Pietro e dei suoi 
compagni. Non viene sottaciuto lo sgomento: “Furono spaventati”. Il turbamento 
afferra tutti tre i discepoli, sebbene solo Pietro azzardi a parlare. Egli dice 
inoltre: “Bene è che noi siamo qui” (v. 5b). Pietro esterna la propria felicità 
(kalos nel significato di “bello”), provocata dalla singolare situazione che sta 
vivendo. Insieme propone a Gesù di erigere tre capanne con il desiderio di 
rendere permanente quell’esperienza. A tale scopo vorrebbe sollecitare quei 
personaggi a restare lì, trasfigurati e meravigliosi, esposti all’ammirazione 
sua e dei suoi compagni, per essere avvolti per sempre in quell’evento d’intensa 
beatitudine. In questa ottica le parole di Pietro sembrano contrapporsi al senso 
di quanto Gesù aveva detto sul cammino verso la croce per raggiungere la 
risurrezione. Invece Pietro ripropone l’idea di rimanere fermi, perché “è bello” 
quanto i discepoli stanno ammirando. 
Mentre prende il sopravvento l’umana incomprensione di Pietro, interviene 
prontamente Dio per proclamare l’identità di Gesù. Sono avvolti dall’ombra di 
una nube da cui proviene una voce. Nella tradizione biblica la nube accompagna 
le manifestazioni divine. Sul monte Sinai costituiva un segno della presenza di 
Dio, nascosta e potente. Nel percorso delle zone desertiche essa ricopriva la 
tenda del convegno, mentre la gloria di Dio riempiva la dimora.
Nel nostro testo la nube diventa il contesto privilegiato e il modo attraverso 
il quale Dio non solo si rende presente, ma si fa vivo e rivolge la parola ai 
tre discepoli, con una dichiarazione esplicita e definitiva: “Questi è il Figlio 
mio, l’amato” (v. 7b); e prosegue con un ordine perentorio e autorevole: 
“Ascoltate lui”. 
I discepoli apprendono direttamente dall’Onnipotente l’identità propria di Gesù. 
È Dio che lo dichiara e lo mostra quale suo Figlio amato. Non esiste una 
proclamazione e una rivelazione più luminosa e dichiarativa di questa. Anzitutto 
perché proviene dalla fonte suprema della verità e dell’amore, cioè dall’essere 
stesso divino. In secondo luogo essa fa luce totale sulla persona di Cristo, in 
modo che non si possa più falsificare o confondere o non recepire nella sua 
interezza e profondità. Veramente la teofania della trasfigurazione giunge 
inequivocabilmente negli abissi insondabili e radiosi del mistero di Cristo. 

Tra Cristo e Dio si palesa una relazione di origine, quale Figlio generato dal 
Padre, e insieme si dimostra la loro parità di essere, in quanto Gesù non è 
posto nel rango di servo, come lo sono Mosè ed Elia, ma è innalzato alla dignità 
di Figlio. La tenera e vigorosa designazione di essere “l’amato” evidenzia la 
unicità di predilezione, con cui il Padre lo considera e giustamente lo enuncia.
Da questo augusto riconoscimento procede l’invito ad “ascoltare lui”, con 
l’imperativo presente, per indicare che l’ascolto va fatto in modo continuativo 
e incondizionatamente. Proprio in ragione che Gesù è il Figlio di Dio, i 
discepoli sono chiamati ad obbedire alle sue parole. Li obbliga all’ascolto non 
tanto il contenuto o la qualità di quanto egli dice, ma l’identità della sua 
persona. È il Figlio che parla, non uno dei numerosi maestri. Più specificamente 
l’autorevole dichiarazione mostra che Gesù va accettato soprattutto nella sua 
missione che prossimamente si consumerà a Gerusalemme con la morte in croce e la 
risurrezione. Anche se appare scandalosa e sconveniente, essa costituisce 
l’espressione autentica della suprema volontà divina: corrisponde al disegno 
salvifico del Padre. I discepoli debbono credere e riporre in Gesù tutta la loro 
fiducia e speranza; egli è il Figlio diletto.
La teofania si conclude con l’indicazione che i tre apostoli non vedono più 
nessuno se non Gesù solo con loro. Le due figure anticotestamentarie sono 
scomparse; i discepoli non le vedono più, perché non ne sentono il bisogno, dato 
che hanno con loro il Figlio diletto, subentrato ai servi. Non sentono più la 
voce del Padre, ma devono ascoltare quella del Figlio, in cui il Padre vuole 
rivelare la sua verità totale. Ciò che conta è che Gesù sia ancora con loro e 
loro con lui, per sottolineare che quel personaggio eccelso, il Figlio amato del 
Padre, s’identifica con l’uomo Gesù, il quale, dopo l’episodio folgorante della 
trasfigurazione, si trova solo con i tre discepoli. 
Don Renzo Lavatori
 
    (11-03-2012)
    Il nuovo 
    tempio sostituisce l'antico
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel 
tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. 
Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le 
pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i 
banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non 
fate della casa del Padre mio un mercato!”. I suoi discepoli si ricordarono che 
sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi divorerà”. Allora i Giudei presero la 
parola e gli dissero: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?”. Rispose 
loro Gesù: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Gli 
dissero allora i Giudei: “questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e 
tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva 
detto questo e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. Mentre era 
a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli 
compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché 
conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’ uomo. 
Egli infatti, conosceva quello che c’è nell’ uomo. ( Gv 2,13-25).
Nel brano evangelico possiamo costatare tre gesti significativi che compie Gesù: 
Il primo è la cacciata dei mercanti dal tempio (gesto autorevole); il secondo 
corrisponde alle parole che Gesù dice in vista della sua Pasqua di morte e di 
resurrezione (gesto messianico); Infine il terzo indica la facoltà introspettiva 
di Gesù (gesto profetico). 
Quanto al sovvertimento operato nel’ambiente del tempio dove si vendeva e 
comprava ogni genere di bestiame con lo scopo dei sacrifici cultuali, esso sta a 
significare che Gesù possiede una autorità superiore al tempio stesso, vale a 
dire si rivela quale uomo religioso inviato da Dio e rivestito di una potenza 
divina. Di fatto egli spiega il gesto compiuto dichiarando che quel luogo non 
deve essere profanato in quanto costituisce la casa del Padre suo. Con ciò 
afferma esplicitamente che Dio è suo Padre, mostrando un rapporto di profonda 
comunione con lui quale suo figlio e messaggero. Oltre all’ aspetto rivelatore 
della sua identità, Gesù fa capire che quel luogo sacro, espressione della vita 
spirituale e liturgica del popolo, va purificato, rinnovato e ricostruito in una 
dimensione nuova in forza propriamente della sua persona e dell’opera che è 
venuto a realizzare. Si apre una visione nuova in torno all’ antico tempio di 
Gerusalemme e a tutta la vita religiosa di quel popolo, come si trattasse di un 
cambiamento e di un passaggio di altissimo valore culturale e religioso. Da una 
parte Gesù segna la fine di una economia religiosa fondata sul ritualismo legato 
ai dettami della Legge osservati esternamente ma che non hanno il potere di 
muovere l’adesione del cuore; dall’altra parte egli inaugura una epoca nuova in 
cui sorgeranno i veri adoratori di Dio in Spirito e verità. Di questi egli è 
l’iniziatore e il realizzatore in conformità al progetto salvifico del Padre 
suo. 
 Da qui sorge la 
forte reazione dei Giudei che lo rimproverano ed esigono di mostrare un segno 
visibile che confermi l’autorevolezza del suo comportamento. A questo punto Gesù 
offre una luminosa rivelazione della sua opera redentrice che costituisce 
l’avvio di un nuovo culto e di un nuovo tempio. Di proclama profeticamente: 
“distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Parole umanamente 
assurde e inaudite, che suscitano subito la opposizione dei Giudei e la loro 
condanna. Ma Gesù, commenta l’evangelista: intendeva parlare del tempio del suo 
corpo. Ecco la novità sconvolgente: Il nuovo luogo di culto non è più il grande 
solenne edificio di Gerusalemme, ma Cristo stesso nel suo corpo immolato e 
risorto, non solo nel senso fisico ma il corpo va inteso anche nell’ aspetto 
sociale di coloro che con il battessimo fanno parte della Chiesa corpo mistico 
di Cristo e sono uniti a lui come un solo organismo spirituale. Si fa luce sull’ 
evento pasquale di Gesù, dove egli esercita il vero culto di oblazione al Padre 
attraverso l’offerta sacrificale del suo corpo crocifisso. Egli attua tale 
offerta unicamente per amore, trasformando la morte in un momento di grazia e di 
salvezza. Lì sulla croce egli diventa sacerdote vittima e tempio del nuovo culto 
reso a Dio suo Padre e atto di redenzione e di salvezza per gli uomini.
Da qui sorge la 
forte reazione dei Giudei che lo rimproverano ed esigono di mostrare un segno 
visibile che confermi l’autorevolezza del suo comportamento. A questo punto Gesù 
offre una luminosa rivelazione della sua opera redentrice che costituisce 
l’avvio di un nuovo culto e di un nuovo tempio. Di proclama profeticamente: 
“distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Parole umanamente 
assurde e inaudite, che suscitano subito la opposizione dei Giudei e la loro 
condanna. Ma Gesù, commenta l’evangelista: intendeva parlare del tempio del suo 
corpo. Ecco la novità sconvolgente: Il nuovo luogo di culto non è più il grande 
solenne edificio di Gerusalemme, ma Cristo stesso nel suo corpo immolato e 
risorto, non solo nel senso fisico ma il corpo va inteso anche nell’ aspetto 
sociale di coloro che con il battessimo fanno parte della Chiesa corpo mistico 
di Cristo e sono uniti a lui come un solo organismo spirituale. Si fa luce sull’ 
evento pasquale di Gesù, dove egli esercita il vero culto di oblazione al Padre 
attraverso l’offerta sacrificale del suo corpo crocifisso. Egli attua tale 
offerta unicamente per amore, trasformando la morte in un momento di grazia e di 
salvezza. Lì sulla croce egli diventa sacerdote vittima e tempio del nuovo culto 
reso a Dio suo Padre e atto di redenzione e di salvezza per gli uomini. 
Alla fine il brano evangelico si conclude sottolineando la capacità 
introspettiva che fa vedere a Gesù i sentimenti del cuore umano in modo da non 
aver bisogno di altre testimonianze. Egli sa riconoscere chi è mosso da vera 
fede e sincero amore, per cui nessuno può nascondersi davanti a lui. Tale fatto 
diventa per noi cristiani una sollecitazione a saper purificare il nostro animo 
da sentimenti e da azioni che non corrispondono al culto in spirito e verità a 
Dio Padre. Così si richiede per mezzo del Figlio suo Gesù con la grazia dello 
Spirito Santo una totale conversione. La quaresima ci sospinge a muoverci su 
questa strada per poter vivere una totale risurrezione nella luce e nell’amore 
di Gesù, in modo da far morire ogni peccato e cattiveria, ogni falsità ed 
egoismo che covano dentro il nostro cuore e che Gesù vuole estirpare 
radicalmente per fare della nostra persona e della nostra vita un atto sincero 
di adorazione e di sottomissione al Signore.
Don Renzo Lavatori
    (18-03-2012)
    
    Amore e Giustizia di Dio Padre nel figlio crocifisso
 In quel tempo, Gesù disse a Nicodemo: “Come Mosè innalzò il serpente nel 
deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio del uomo, perché chiunque 
crede in noi abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare 
il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la 
vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il 
mondo ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è 
condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel 
nome dell’ unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel 
mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro 
opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene 
alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità 
viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte 
in Dio. (Gv 3,14-21)
In quel tempo, Gesù disse a Nicodemo: “Come Mosè innalzò il serpente nel 
deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio del uomo, perché chiunque 
crede in noi abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare 
il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la 
vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il 
mondo ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è 
condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel 
nome dell’ unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel 
mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro 
opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene 
alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità 
viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte 
in Dio. (Gv 3,14-21)
In questo brano del vangelo di Giovanni possiamo fermare l’attenzione su due 
aspetti essenziali della vita cristiana: l’uno, più gioioso e luminoso, riguarda 
l’infinito amore di Dio Padre per noi creature umane; l’altro, più forte e 
rigoroso, concerne il giudizio divino per coloro che non hanno accolto il suo 
amore e non hanno creduto nel Figlio suo. L’amore e il giudizio costituiscono 
due facce della medesima medaglia e non possono separarsi ma si sostengono l’una 
con l’altra. Infatti l’amore per sua natura esige che sia accolto nella 
reciproca corrispondenza tra l’amante e l’amato, altrimenti l’amore resta 
incompiuto e l’amato rimane chiuso nella propria incomunicabilità che forma la 
sua prigionia e condanna.
1. L’amore di Dio viene espresso da tre eventi di immenso valore che ne rivelano 
la grandezza e la bellezza. Il primo descrive in anticipo quella che sarà la 
missione redentrice del Figlio di Dio incarnato, che sarà innalzato sulla croce, 
verrà cioè crocifisso quale atto di oblazione generosa e gratuita della propria 
vita per la salvezza degli uomini schiavi del peccato e della morte. Un’opera di 
infinita benevolenza, che era stata preconizzata dall’episodio del serpente di 
bronzo innalzato su di un’asta, che salvava il popolo ebraico dai morsi dei 
serpenti per la loro ribellione lungo il percorso dell’esodo. Ma tale gesto 
doveva essere accompagnato dalla consapevolezza e compunzione dei propri 
peccati. Similmente avviene con la morte in croce di Cristo, che ha offerto la 
vita per il nostro riscatto in conformità al progetto del Padre, il quale ha 
tanto amato il mondo da sacrificare il Figlio unigenito. Il secondo aspetto 
sottolinea che tale gesto richiede la corrispondenza degli uomini, i quali sono 
invitati a credere all’amore di Dio nei loro confronti e affidarsi alla sua 
misericordia, riconoscendo la propria miseria e il bisogno della divina grazia 
per essere salvati dal male e dalla morte. Si tratta di una stretta 
collaborazione tra l’offerta amorevole di Dio nel Figlio crocifisso e l’adesione 
fiduciosa della creatura umana. In terzo luogo si dice che per questa ragione 
Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo ma per salvarlo 
per mezzo di lui. Si vede chiaramente che viene affermato il primato dell’amore 
pieno e generoso di Dio verso l’umanità. Ciò costituisce il dato di fondo che va 
capito, accolto e vissuto. 
 2. Se non si attua tale cooperazione tra Dio e l’uomo, succede inevitabilmente 
il giudizio di Dio, nel senso che il suo amore infinitamente grande viene 
respinto e rifiutato dagli uomini chiusi nel proprio egoismo e disprezzanti del 
dono divino. Per essi non resta altro che la condanna, perché non hanno creduto 
nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. la condanna sta precisamente nel rimanere 
schiavi del male e della morte, prigionieri del peccato, della cattiveria, delle 
molteplici e svariate sofferenze fisiche, psichiche e spirituali. Sono dei 
poveri disgraziati, perché non hanno aderito alla offerta benefica del 
Salvatore, ma hanno preferito la propria miseria umana. Ne segue che il giudizio 
appare molto chiaro e preciso: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno 
amato più le tenebre che la luce. Terrificante e amara considerazione! Contro di 
essi non si può fare alcun appello o alcuna giustificazione, ma semplicemente 
riconoscere l’assurdità e la mostruosità di coloro che antepongono l’oscurità 
del male alla luminosità del bene. D’altronde, conclude il vangelo, chi fa il 
male odia la luce e non viene alla luce, perché le loro opere non siano svelate 
e riprovate. Occorre prendere atto seriamente di queste parole austere ma vere.
2. Se non si attua tale cooperazione tra Dio e l’uomo, succede inevitabilmente 
il giudizio di Dio, nel senso che il suo amore infinitamente grande viene 
respinto e rifiutato dagli uomini chiusi nel proprio egoismo e disprezzanti del 
dono divino. Per essi non resta altro che la condanna, perché non hanno creduto 
nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. la condanna sta precisamente nel rimanere 
schiavi del male e della morte, prigionieri del peccato, della cattiveria, delle 
molteplici e svariate sofferenze fisiche, psichiche e spirituali. Sono dei 
poveri disgraziati, perché non hanno aderito alla offerta benefica del 
Salvatore, ma hanno preferito la propria miseria umana. Ne segue che il giudizio 
appare molto chiaro e preciso: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno 
amato più le tenebre che la luce. Terrificante e amara considerazione! Contro di 
essi non si può fare alcun appello o alcuna giustificazione, ma semplicemente 
riconoscere l’assurdità e la mostruosità di coloro che antepongono l’oscurità 
del male alla luminosità del bene. D’altronde, conclude il vangelo, chi fa il 
male odia la luce e non viene alla luce, perché le loro opere non siano svelate 
e riprovate. Occorre prendere atto seriamente di queste parole austere ma vere.
A noi, cristiani di questo tempo turbato e disorientato, dove le tenebre della 
malvagità sembrano offuscare la luce del bene e del vero, si richiede una chiara 
presa di coscienza e un decisivo orientamento interiore: amare e cercare la luce 
che proviene da Cristo salvatore, dalle sue parole di vita e dal suo amore 
donato in pienezza sulla croce. Là troviamo la fonte della rinascita spirituale, 
del bene, della verità e della speranza. Non si può rimanere nella incertezza o, 
peggio ancora, nella oscurità della corruzione e disonestà, attanagliati 
dall’angoscia e dalla sofferenza. Alziamo la testa, il cuore, tutta la nostra 
persona, fissando lo sguardo verso Cristo crocifisso e dare a lui con la 
totalità del nostro essere l’adesione sincera e concreta. Allora potrà nascere 
una umanità nuova e serena, redenta e illuminata dall’amore infinito del Padre 
che ci ha donato il suo Figlio per dirci concretamente la profondità, la 
grandezza, la sublimità del suo amore misericordioso. Se questo non lo facciamo, 
purtroppo restiamo soggiogati dalla cattiveria, da ogni sorta di male e dalla 
morte.
Don Renzo Lavatori
 
    (25-03-2012)
    
Vedere Gesu' e riconoscerlo nella croce
 In quel tempo, tra 
quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni 
Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli 
domandarono: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Filippo andò a dirlo ad Andrea, e 
poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: “E’ venuta 
l’ora che il Figlio del uomo sia glorificato. In verità io vi dico: se il chicco 
di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce 
molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in 
questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi 
segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre 
lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvame da 
quest’ora? ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il 
tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò 
ancora!”. La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un 
tuono. Altri dicevano: “Un angelo gli ha parlato”. Disse Gesù: “Questa voce non 
è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe 
di questo mondo sarà gettato fuori, ed io quando sarò innalzato da terra, 
attirerò tutti a me.” Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire. 
(Gv. 12, 20-33)
In quel tempo, tra 
quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni 
Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli 
domandarono: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Filippo andò a dirlo ad Andrea, e 
poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: “E’ venuta 
l’ora che il Figlio del uomo sia glorificato. In verità io vi dico: se il chicco 
di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce 
molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in 
questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi 
segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre 
lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvame da 
quest’ora? ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il 
tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò 
ancora!”. La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un 
tuono. Altri dicevano: “Un angelo gli ha parlato”. Disse Gesù: “Questa voce non 
è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe 
di questo mondo sarà gettato fuori, ed io quando sarò innalzato da terra, 
attirerò tutti a me.” Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire. 
(Gv. 12, 20-33)
Il brano evangelico mette sotto i nostri occhi il mistero pasquale e ci fa 
intendere che possiamo vedere Gesù solo se riconosciamo il senso profondo della 
sua morte. Lì, sulla croce, ci è consentito di contemplare il vero volto di 
Cristo e comprendere il disegno salvifico voluto dal Padre, quello di dover 
passare attraverso l’annientamento della propria vita per giungere alla piena 
glorificazione.
Infatti, alcuni Greci, cioè gente pagana, chiedono di “voler vedere Gesù”, non 
solo a livello fisico, ma più profondamente poterlo individuare nella sua realtà 
profetica e taumaturgica. Alla loro richiesta fatta attraverso gli apostoli 
Filippo e Andrea, Gesù dà una risposta sorprendente, al di fuori di ogni logica 
umana. Dice che egli sarà glorificato ma in maniera insolita e dolorosa, come il 
chicco di grano che, caduto in terra, marcisce per poi produrre frutto 
abbondante. Ma non basta. Per vedere Gesù non è sufficiente assistere al suo 
martirio, è necessario inoltre compartecipare al suo destino, condividere il suo 
annientamento, morire con lui. Allora, si potranno capire veramente e totalmente 
la sua figura e la sua missione. Non vi è altra strada. Lo afferma chiaramente: 
“Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo la 
conserverà per la vita eterna”. Parole forti e inequivocabili, ma che esprimono 
bene la via da percorrere per i suoi seguaci. In effetti, occorre guardare lui e 
seguire il suo camino che conduce inesorabilmente al proprio annientamento per 
ritrovarsi trasfigurati con lui nella gloria della vita eterna. Questa visione 
costituisce il nucleo del mistero di Cristo e della sua opera redentrice. Solo 
servendo Gesù e restando al suo seguito, il discepolo sarà onorato dal Padre.
 In un secondo 
momento, Gesù mostra la sua angoscia mortale: “Adesso l’anima mia è turbata.”. 
Tuttavia non si abbandona alla sfiducia, non si arrende davanti al sacrificio 
totale di se stesso, ma si dona totalmente al volere del Padre, perché in tal 
modo il Padre viene glorificato e anche il Figlio sarà glorificato. Arriva la 
conferma di questa realtà da una voce dal cielo, che alcuni pensano sia un tuono 
ed altri un angelo. Ma Gesù chiarifica che questa voce è una rivelazione 
dell’opera salvifica di Cristo, perché con la sua morte si attua il giudizio 
contro la mentalità mondana e si avvera la condanna del principe di questo 
mondo, satana. Ciò significa che con la morte in croce si compie la salvezza 
degli uomini che si aprono all’amore di Cristo crocifisso. Proprio sulla croce 
quando sarà innalzato da terra, Gesù diventerà il punto di attrazione per tutti 
gli uomini. Si nota uno strano paradosso: Il fatto della morte in croce, che 
umanamente sembra il più grande fallimento e una totale distruzione, diventa 
invece il momento di una vittoria piena sul male, sul peccato e sulla morte per 
essere un segno di immenso valore per coloro che lo guarderanno con fede e con 
intima compunzione. In questo modo Gesù rivela effettivamente la sua identità e 
la sua opera di redenzione per gli uomini.
In un secondo 
momento, Gesù mostra la sua angoscia mortale: “Adesso l’anima mia è turbata.”. 
Tuttavia non si abbandona alla sfiducia, non si arrende davanti al sacrificio 
totale di se stesso, ma si dona totalmente al volere del Padre, perché in tal 
modo il Padre viene glorificato e anche il Figlio sarà glorificato. Arriva la 
conferma di questa realtà da una voce dal cielo, che alcuni pensano sia un tuono 
ed altri un angelo. Ma Gesù chiarifica che questa voce è una rivelazione 
dell’opera salvifica di Cristo, perché con la sua morte si attua il giudizio 
contro la mentalità mondana e si avvera la condanna del principe di questo 
mondo, satana. Ciò significa che con la morte in croce si compie la salvezza 
degli uomini che si aprono all’amore di Cristo crocifisso. Proprio sulla croce 
quando sarà innalzato da terra, Gesù diventerà il punto di attrazione per tutti 
gli uomini. Si nota uno strano paradosso: Il fatto della morte in croce, che 
umanamente sembra il più grande fallimento e una totale distruzione, diventa 
invece il momento di una vittoria piena sul male, sul peccato e sulla morte per 
essere un segno di immenso valore per coloro che lo guarderanno con fede e con 
intima compunzione. In questo modo Gesù rivela effettivamente la sua identità e 
la sua opera di redenzione per gli uomini.
La conclusione appare molto chiara e abbraccia due aspetti fondamentali. L’uno 
riguarda la visione vera e profonda della morte in croce di Gesù quale 
rivelazione del progetto salvifico del Padre, che sa trasformare la morte in 
vita, l’annullamento in glorificazione; L’altro aspetto invita ciascuno di noi a 
seguire il Maestro sulla medesima traiettoria per conseguire la sua stessa vita 
e gloria eterne. Il vedere dunque si accompagna al seguire per una vita 
autenticamente cristiana. Questo è il mistero che la Pasqua ci indica e ci 
comunica, verso il quale ci stiamo preparando nel cammino quaresimale in modo da 
essere pronti ad accogliere tutto l’amore e il perdono di Gesù innalzato sulla 
Croce. Solo in questo modo potremo poi ottenere una vita nuova e luminosa con la 
resurrezione.
Don Renzo Lavatori
    (01-04-2012)
    
    Il Racconto della Passione
 Giungono intanto in 
un podere di nome Getsemani;
Giungono intanto in 
un podere di nome Getsemani;
ed egli dice ai suoi discepoli: “Sedete qui, mentre io prego”.
Quindi prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, 
e cominciò ad aver terrore e angoscia.
E dice loro: “L’anima mia è triste fino a morte. 
Rimanete qui e vegliate”.
E, andando avanti un po’, 
si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, 
passasse da lui quell’ora.
E diceva: “Abbà, Padre. Tutte le cose (sono) possibili a te. 
Togli questo calice da me; ma non ciò che voglio io, ma tu”.
E viene e li trova addormentati. 
E dice a Pietro: “Simone, dormi? 
Non hai avuto forza di vegliare una sola ora?
Vegliate e pregate, affinché non entriate in tentazione. 
Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”.
E di nuovo, essendosi allontanato, 
pregò (dicendo) la stessa parola.
E di nuovo, tornato, li trovò addormentati.
I loro occhi, infatti, erano appesantiti
e non sapevano che cosa rispondergli.
E viene la terza volta e dice loro:
“Dormite ormai e riposate. Basta. È giunta l’ora. Ecco, 
il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani dei peccatori.
Alzatevi, andiamo. Ecco, chi mi consegna è vicino”.
(Mc. 14,32-42)
Dopo l’ingresso glorioso a Gerusalemme, Gesù ormai si avvicina al momento finale 
della sua missione. In questa domenica si legge il racconto della passione 
secondo il vangelo di Marco. La nostra attenzione si rivolge alla drammatica 
prova che Gesù ha dovuto affrontare nel giardino degli olivi, per conoscere la 
sofferenza del suo animo e la sua angoscia profonda insieme al suo coraggio e 
alla decisione di andare incontro alla morte.
1. La tristezza e il terrore di Gesù davanti a tre apostoli 
Subito viene precisato il luogo dove giunge Gesù assieme ai discepoli e da dove 
verrà poi prelevato: il Getsemani. Egli manifesta loro l’intenzione chiara per 
cui si è recato in quel posto. Sono le ultime ore di libertà prima che “giunga 
l’ora” fatidica e sia “consegnato nelle mani dei peccatori” (v. 41b). Egli, che 
conosce ogni cosa, desidera rivolgersi a Dio e immergersi nel suo volere, 
affinché tutto ciò che sta per attuarsi corrisponda al compimento dei suoi 
disegni. Lo dice ai suoi: “Sedete qui, mentre io prego” (v. 32b).
La sua preghiera è solitaria, a tu per tu con Dio; gli altri possono ancora 
rimanere seduti; poi prende con sé soltanto Pietro, Giacomo e Giovanni; infine 
si separa anche da costoro. Essi sono stati presenti poi sul monte, quando hanno 
contemplato Gesù trasfigurato e hanno udito la voce di Dio che lo dichiarava suo 
Figlio, in un contesto che li orientava verso la morte e la risurrezione. Colui 
che ora hanno davanti agli occhi non appare l’uomo forte, famoso, sfolgorante 
nella luce divina, al contrario un individuo terrorizzato e angosciato: 
“Cominciò ad aver terrore e angoscia” (v. 33b). Due termini che esprimono 
contemporaneamente sia la repulsione e il timore davanti a quanto lo aspetta sia 
la interiore amarezza e oppressione, come fosse pesantemente schiacciato da una 
forza misteriosa e irrefrenabile, di fronte alla quale lui stesso ne resta 
accasciato senza possibilità di ripresa e di rivincita. Loro lo vedono lì, 
abbattuto, sotto un realismo di sofferenza inaudita e di cui non possono fare a 
meno di calcolarne l’enorme pesantezza. I tre devono sapere e proprio a loro 
Gesù esterna la sua interiore afflizione: “L’anima mia è triste fino a morte” 
(v. 34a). Ne fa vedere e sentire il tenore gravissimo; non si nasconde davanti a 
loro, non ha paura di farsi cogliere nella sua massima debolezza a livello 
psicologico e spirituale. Tutto essi devono conoscere di lui, entrare fino in 
fondo nel suo essere vero e reale. È là, anche adesso si rivela, similmente al 
monte, ma sotto la realtà pienamente umana, come là si era manifestato nello 
splendore divino. È lo stesso Gesù, è il loro autentico maestro.
Poco dopo si distacca e va lontano anche da Pietro, Giacomo e Giovanni. Il suo 
travaglio e il suo animo pieno di terrore possono trovare luce e forza solo in 
Dio. Per questo si rivolge direttamente a Lui, cadendo a terra, preso dalla 
tristezza. Il testo marciano espone succintamente il contenuto della richiesta 
che sgorga dal suo cuore angosciato. Egli anela e sospira affinché quell’ora 
tremenda che sta per giungere vada oltre, non lo riguardi personalmente, se 
questo è possibile. Ma ci si chiede chi abbia il potere di attuare tale 
eventualità. Forse spetta agli uomini che fra poco si avventano contro di lui. 
In quali mani è posto il destino cui è stato sottomesso?
 2. La forza e la 
luce di Gesù nell’affidamento al Padre
2. La forza e la 
luce di Gesù nell’affidamento al Padre
Il testo apre uno sguardo sull’animo di Gesù, indicando alcune espressioni che 
sorgono dall’intimo e rivelano non solo lo stato interiore, ma anche la sua 
costituzione fondamentale nel rapporto primario che lo unisce a Dio. Gesù, 
gettatosi a terra, si rivolge a Colui che chiama ed è suo Padre. Si nota una 
strana situazione: da una parte egli si immerge nella polvere come un individuo 
totalmente avvinto ad essa e soppiantato dalla propria desolazione umana, 
dall’altra il suo spirito si eleva fiduciosamente verso le altezze divine, dove 
ritrova le coordinate della sua unione filiale con Dio Padre. Bassezza estrema 
ed elevazione eccelsa: questa la manifestazione e la realtà del suo essere. 
Il termine “Abbà”, solo qui usato in Marco e unico tra gli evangelisti, allude 
al modo usuale dei bambini di rivolgersi al loro genitore. Un appellativo 
cordiale e fiducioso. Sembra che Gesù in questo modo voglia toccare il cuore 
paterno di Dio, farlo sussultare, piegarlo ai suoi desideri. Ma nello stesso 
tempo sa che il Padre vuole sempre il bene del Figlio e a lui si abbandona 
confidente. Si rivela la dimensione propria di Gesù nel suo essenziale rapporto 
a Colui che lo ha generato, da cui attinge la luce e la forza per andare 
incontro con disponibilità piena all’attuazione del progetto salvifico. 
In tale simbiosi tra Padre e Figlio, resta a Gesù uno spiraglio di speranza, 
proseguendo nella preghiera e sapendo di rivolgersi a Dio in quanto Dio, nella 
consapevolezza della sua onnipotenza: “Tutte le cose (sono) possibili a te” (v. 
36a). Si apre un varco nel suo cuore, quello che il calice di sofferenza e di 
morte possa essere allontanato. Il potere assoluto di Dio può prevalere sulle 
forze incombenti del male e quindi sottrarre il Figlio al grande dolore. Ma 
oltre alla potenza e alla forza si fa avanti la santa volontà di Dio, la quale 
rientra perfettamente nella dimensione della sua paternità.
Dio non risponde alla preghiera di Cristo con una manifestazione teofanica né 
con un intervento prodigioso. È Gesù, che pur desiderando che il calice sia 
tolto, tuttavia implora che sia fatta la volontà divina. In questo lancinante 
momento principalmente si compie la sua vera morte. Egli muore a se stesso, alla 
sua volontà, ai suoi desideri, rimettendosi completamente alla prospettiva 
paterna con l’impegno di tutte le proprie forze. Là, prostrato sulla nuda terra, 
avvolto dalla tristezza più acuta, tutta la sua persona si pone in assoluto 
atteggiamento filiale di oblazione al volere supremo. Lui ormai ha finito il suo 
compito; in questo ultimo atto di abbandono consuma la sua determinazione 
d’inviato dal Padre quale Figlio fino nelle intime fibre dell’essere. In tal 
modo rivela che non appartiene più a se stesso, che non ha alcun diritto da far 
prevalere, che la sua libertà personale resta affrancata totalmente da sé per 
avvitarsi a quella del Padre. Ora tutto è fattibile e tutto va eseguito 
coerentemente: “Non ciò che voglio io, ma tu” (v. 36b).
Quando il suo animo si è rafforzato aggrappandosi al Padre, Gesù si volge verso 
i suoi, come se gli avesse persi di vista, per costatare la loro situazione 
spirituale, il loro modo di essere e di porsi davanti a quell’ora tremenda. Per 
questo motivo egli torna subito dai tre apostoli, che aveva sollecitato a 
vegliare rimanendo poco lontano da lui. Non si ripiega solo in se stesso né si 
chiude dentro il suo tragico destino, ma il suo cuore si dirige anche verso di 
loro. Interrompendo la preghiera per tre volte, Gesù indica la sua attenzione 
nei confronti dei tre e si trova come dilaniato: interiormente si sente 
sofferente e angosciato; la volontà di Dio da adempiere appare chiara; tuttavia 
il pensiero e la premura sono rivolti proprio a loro. Cosa faranno senza di lui? 
Aveva ordinato loro di stare svegli, li trova invece addormentati. Da qua si 
staglia netto il loro distacco che li porterà a fuggire o a rinnegarlo, come 
succederà a Pietro.
Per la seconda volta Gesù prega il Padre con “la stessa parola”, come per 
confermare e rafforzare l’unione della sua volontà con quella paterna, in modo 
da non lasciarsi sviare in alcun modo dalla totale accondiscendenza. Al 
contrario il testo fa vedere come il rapporto tra Gesù e i discepoli si faccia 
sempre più distante e discordante. Tutto ciò comporta la conclusione umanamente 
triste, ma spiritualmente vigorosa: l’unica forza e l’unico orientamento del 
Figlio rimane la fedeltà al Padre. Lì si scopre la vera forza che si effonde 
nell’animo di Cristo e lo rende ormai deciso e sollecito. Le creature umane si 
distaccano da lui e si disperdono. La conseguente solitudine non costituisce un 
impedimento per proseguire l’attuazione della sua ora.
Il testo parla di una terza volta in cui egli dice: “Dormite ormai e riposate” 
(v. 41b). Ormai non ha più importanza per loro vegliare e pregare. Il tempo 
della preparazione è finito, in quanto “è giunta l’ora”. Essi possono dormire e 
riposare, perché non desidera più che passi quell’ora, anzi gli va incontro con 
decisione e prontezza: “Basta”. Se si è fatto vicino colui che tradisce Gesù, 
affinché il Figlio dell’uomo sia consegnato “nelle mani dei peccatori”, egli 
dice loro: “Alzatevi, andiamo”. Ora non è più tempo neanche di dormire, occorre 
muoversi fisicamente, anche se spiritualmente addormentati. Il nemico avanza e 
sta lì accanto per consumare il misfatto del tradimento: “Ecco, chi mi consegna 
è vicino” (v. 42).
Don Renzo Lavatori.
    (Giovedì, venerdì, sabato santi. 05,06,07/04/2012)
    
    
 I tre giorni precedenti la resurrezione di Gesù sono chiamati “santi” perché 
fanno rivivere l’evento centrale della nostra redenzione; ci riconducono al 
nucleo essenziale della fede cristiana: la passione, la morte e la risurrezione 
di Cristo. Sono giorni che costituiscono il cuore e il fulcro dell’intero anno 
liturgico come pure della vita della Chiesa e di ogni cristiano. Esso 
costituisce un’unica solennità, la più importante di tutto l’anno liturgico.
I tre giorni precedenti la resurrezione di Gesù sono chiamati “santi” perché 
fanno rivivere l’evento centrale della nostra redenzione; ci riconducono al 
nucleo essenziale della fede cristiana: la passione, la morte e la risurrezione 
di Cristo. Sono giorni che costituiscono il cuore e il fulcro dell’intero anno 
liturgico come pure della vita della Chiesa e di ogni cristiano. Esso 
costituisce un’unica solennità, la più importante di tutto l’anno liturgico.
1. Nel Giovedì santo, con la messa vespertina, chiamata la cena del Signore, la 
Chiesa commemora la istituzione dell’eucaristia, del sacerdozio ministeriale e 
anche dell’invito di Gesù al comandamento nuovo della carità. Le parole di 
Cristo, pronunciate in quella occasione dentro il cenacolo, sono cariche di 
mistero, in quanto manifestano con chiarezza la sua volontà di restare sempre 
con noi sotto le specie del pane e del vino consacrate; egli si rende presente 
con il suo corpo sacrificato e con il suo sangue versato. Ciò costituisce il 
sacrificio della nuova e definitiva alleanza, offerta a tutti coloro che 
vogliono nutrirsi del suo corpo e 
 del suo sangue quale cibo di vita eterna. Il 
gesto di Gesù mostra la prova suprema del suo amore per la Chiesa e per tutti 
gli uomini. Il giovedì santo diventa un rinnovato invito a rendere grazie a Dio 
per il sommo dono della eucaristia che va accolto con viva fede e va adorato con 
umiltà e totale dedizione.
del suo sangue quale cibo di vita eterna. Il 
gesto di Gesù mostra la prova suprema del suo amore per la Chiesa e per tutti 
gli uomini. Il giovedì santo diventa un rinnovato invito a rendere grazie a Dio 
per il sommo dono della eucaristia che va accolto con viva fede e va adorato con 
umiltà e totale dedizione.
2. Il Venerdì Santo, giorno della passione e della crocifissione del Signore, 
ricorda quell’evento doloroso e drammatico, ma portatore della nostra salvezza. 
Ogni anno, ponendoci in silenzio e in adorazione di fronte a Gesù appeso al 
legno della croce, riconosciamo tutta la grandezza, la profondità, la pienezza 
del suo amore per noi. Davanti a tale oblazione cruenta della propria vita fino 
alla morte umiliante della croce, non possiamo non prostrarci con un senso di 
immensa gratitudine e insieme con la consapevolezza dei nostri peccati, dai 
quali solo il suo sacrificio ci ha liberati. Se da una parte il venerdì santo è 
un giorno pieno di profonda tristezza, al tempo stesso è un giorno ricco di 
amore e fonte per ridestare la nostra fede, per affidarci totalmente al Cristo 
crocifisso e attingere da lui la forza e la grazia di portare la nostra croce 
con il pieno abbandono a Dio, nella certezza che il Crocifisso ci sostiene e ci 
dona la vittoria. Per questa ragione la liturgia esplode nel grido di 
venerazione e di speranza: “O Croce, salve, tu speranza unica, tu unica 
salvezza!”.
 3. Nel Sabato Santo le chiese sono spoglie e silenziose. I fedeli vegliano in 
preghiera come Maria e insieme a Maria condividendo gli stessi sentimenti di 
dolore e di fiducia in Dio. Il raccoglimento e il silenzio di questo giorno 
preparano il nostro animo ad attendere nella notte con la veglia pasquale la 
risurrezione di Cristo, quando proromperà in tutta la comunità cristiana il 
canto della gioia per la risurrezione di Cristo. Ancora una volta, verrà 
proclamata la vittoria della luce sulle tenebre, della vita sulla morte, 
dell’amore sull’odio. Ci accompagni in questo giorno la Vergine Santa che ha 
seguito in silenzio il figlio Gesù fino al calvario, prendendo parte con grande 
pena al suo sacrificio, cooperando così al mistero della redenzione e divenendo 
madre di tutti i credenti. Insieme con lei vegliamo accanto al Cristo morto, 
attendendo con speranza il giorno radioso della risurrezione.
3. Nel Sabato Santo le chiese sono spoglie e silenziose. I fedeli vegliano in 
preghiera come Maria e insieme a Maria condividendo gli stessi sentimenti di 
dolore e di fiducia in Dio. Il raccoglimento e il silenzio di questo giorno 
preparano il nostro animo ad attendere nella notte con la veglia pasquale la 
risurrezione di Cristo, quando proromperà in tutta la comunità cristiana il 
canto della gioia per la risurrezione di Cristo. Ancora una volta, verrà 
proclamata la vittoria della luce sulle tenebre, della vita sulla morte, 
dell’amore sull’odio. Ci accompagni in questo giorno la Vergine Santa che ha 
seguito in silenzio il figlio Gesù fino al calvario, prendendo parte con grande 
pena al suo sacrificio, cooperando così al mistero della redenzione e divenendo 
madre di tutti i credenti. Insieme con lei vegliamo accanto al Cristo morto, 
attendendo con speranza il giorno radioso della risurrezione.
 
Don Renzo Lavatori.
    (08-04-2012)
    
    Gesu' risorto datore dello Spirito
 La 
sera di quello steso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le 
porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, 
si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le 
mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro 
di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Dopo 
aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi 
rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non 
rimessi” (GV. 20,19-23).
La 
sera di quello steso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le 
porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, 
si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le 
mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro 
di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Dopo 
aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi 
rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non 
rimessi” (GV. 20,19-23).
Una volta inserito nella pienezza della vita divina, con la propria umanità 
glorificata, attraverso la risurrezione, Gesù non è solo il soggetto che 
accoglie lo Spirito, ma diventa essenzialmente il donatore. Infatti, dopo aver 
ricevuto dal Padre il dono dello Spirito, egli lo trasmette per sua interna 
disposizione al di fuori di sé, si fa sorgente zampillante del dono eterno verso 
coloro che condividono la stessa situazione umana e anelano alla vita nuova dei 
figli di Dio. Da una parte la sua intima comunione con la gloria del Padre lo 
rende partecipe della potenza originaria divina, del suo Spirito d’amore, 
dall’altra, per la solidarietà che lo lega al la creatura umana di cui egli 
costituisce il primogenito, è il canale attraverso il quale lo Spirito passa 
dalla fonte divina all’umanità intera. Gesù risorto così si fa origine e 
strumento dello Spirito che si effonde su gli uomini (cf. 1Cor 15,45).
a. Nel giorno di Pasqua
 Ecco perché 
«la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse 
le porte dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù e 
stette in mezzo a loro» (Gv 20,19). L’evangelista ci tiene a sottolineare il 
tempo in cui Gesù appare ai discepoli: è la sera del giorno della risurrezione, 
il nuovo giorno che inaugura i tempi ultimi. Di tale giorno egli aveva accennato 
ai suoi nella promessa del Paraclito, lo Spirito di verità, in virtù del quale 
essi avrebbero conosciuto la comunione di Gesù con il Padre e dei discepoli con 
Gesù (Gv 14,20). Quel giorno si è attuato con il giorno della risurrezione, il 
primo dopo il sabato. È il giorno quindi della realizzazione della promessa, il 
giorno in cui viene comunicato il dono dello Spirito. Gesù è in mezzo a loro, 
come nell’ultima cena, ma questa volta non più nella debolezza della carne ma 
nella gloria sfolgorante della risurrezione, con la quale il suo corpo di carne, 
di cui le piaghe mostrano bene la realtà della morte, è stato trasfigurato in un 
corpo ricolmo di Spirito. Egli ormai è l’uomo nuovo, l’uomo datore dei doni 
messianici: la pace, la gioia, la remissione dei peccati, la missione, ma il più 
grande e il più significativo è il do no dello Spirito, che li contiene tutti e 
li riassume (Gv 20,20-23). Ed è proprio il dono dello Spirito che acquista un 
valore particolare nell’insieme del racconto. Prima Gesù dona la pace, poi 
mostra le mani e il costato, a cui segue la gioia dei discepoli nel vedere il 
Signore. Riprende la comunicazione della pace, che costituisce il motivo 
ripetitivo, quale espressione della realtà messianica di Gesù. Egli l’aveva 
promessa nella sua vita terrena (Gv 14,27; 16,33), ma ora la trasmette loro 
realmente. È la «sua pace», non come quella del mondo, la pace cioè che i 
discepoli possono avere solo da lui e in lui. Poi Gesù conferisce loro la 
missione, ch’egli a sua volta ha ricevuto dal Padre: «Come il Padre ha mandato 
me anch’io mando voi» (Gv 20,21b). Così aveva già pregato nel cenacolo: «Come tu 
mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo» (Gv 17,18). Con la 
missione i discepoli so no intimamente uniti a Gesù, con quello stesso pro fondo 
legame che unisce Cristo al Padre. Essi in tal modo entrano in comunione con il 
Padre e, attraverso Cristo, si rapportano a lui quale principio e sorgente 
ultima della
Ecco perché 
«la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse 
le porte dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù e 
stette in mezzo a loro» (Gv 20,19). L’evangelista ci tiene a sottolineare il 
tempo in cui Gesù appare ai discepoli: è la sera del giorno della risurrezione, 
il nuovo giorno che inaugura i tempi ultimi. Di tale giorno egli aveva accennato 
ai suoi nella promessa del Paraclito, lo Spirito di verità, in virtù del quale 
essi avrebbero conosciuto la comunione di Gesù con il Padre e dei discepoli con 
Gesù (Gv 14,20). Quel giorno si è attuato con il giorno della risurrezione, il 
primo dopo il sabato. È il giorno quindi della realizzazione della promessa, il 
giorno in cui viene comunicato il dono dello Spirito. Gesù è in mezzo a loro, 
come nell’ultima cena, ma questa volta non più nella debolezza della carne ma 
nella gloria sfolgorante della risurrezione, con la quale il suo corpo di carne, 
di cui le piaghe mostrano bene la realtà della morte, è stato trasfigurato in un 
corpo ricolmo di Spirito. Egli ormai è l’uomo nuovo, l’uomo datore dei doni 
messianici: la pace, la gioia, la remissione dei peccati, la missione, ma il più 
grande e il più significativo è il do no dello Spirito, che li contiene tutti e 
li riassume (Gv 20,20-23). Ed è proprio il dono dello Spirito che acquista un 
valore particolare nell’insieme del racconto. Prima Gesù dona la pace, poi 
mostra le mani e il costato, a cui segue la gioia dei discepoli nel vedere il 
Signore. Riprende la comunicazione della pace, che costituisce il motivo 
ripetitivo, quale espressione della realtà messianica di Gesù. Egli l’aveva 
promessa nella sua vita terrena (Gv 14,27; 16,33), ma ora la trasmette loro 
realmente. È la «sua pace», non come quella del mondo, la pace cioè che i 
discepoli possono avere solo da lui e in lui. Poi Gesù conferisce loro la 
missione, ch’egli a sua volta ha ricevuto dal Padre: «Come il Padre ha mandato 
me anch’io mando voi» (Gv 20,21b). Così aveva già pregato nel cenacolo: «Come tu 
mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo» (Gv 17,18). Con la 
missione i discepoli so no intimamente uniti a Gesù, con quello stesso pro fondo 
legame che unisce Cristo al Padre. Essi in tal modo entrano in comunione con il 
Padre e, attraverso Cristo, si rapportano a lui quale principio e sorgente 
ultima della
missione. La missione consiste principalmente nel comuni care la comunione di 
amore trinitario, nella quale gli uomini trovano la vera riconciliazione con Dio 
e tra di loro. La remissione dei peccati è precisamente la grazia di poter 
attuare l’unione con Dio, al di sopra di ogni egoismo umano, quell’unione che 
raggiunge la profondità del rapporto del Figlio verso il Padre nella potenza 
vivificante dello Spirito.
b. L’effusione dello Spirito
A tale scopo è dato lo Spirito Santo. Infatti lo Spirito, per sua natura 
personale, è il principio di ogni comunione, non solo all’interno della vita 
trinitaria, ma anche nell’incontro che si stabilisce tra Dio e l’umanità in 
virtù dell’opera del Figlio incarnato. Proprio per il dono di questo Spirito, la 
pace e la remissione dei peccati, che Gesù comunica ai discepoli quale loro 
missione, può trovare il giusto e pieno compimento. Perciò la remissione dei 
peccati è opera dello Spirito Santo. «Dopo aver detto questo, alitò su di loro e 
disse: Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Gesù compie un gesto, quello di 
alitare, a cui accompagna le parole con le quali comunica lo Spirito. Il gesto 
indica l’infusione della vita. Ma è Dio che in fonde la vita. Gesù risorto è 
colui che dona la vita come fa Dio, poiché possiede la stessa potenza vivi 
peccatrice. Tuttavia questa vita non è tanto a livello naturale della creazione 
o della vita terrena dell’uomo, ma è la vita dello Spirito, quella vita che è 
propria di Dio, del suo essere intimo. Essa è data dal soffio eterno che scorre
continuamente dal Padre al Figlio e che li rende un solo Spirito vivificante. 
Questa è la vita vera, che i discepoli sono stati chiamati a diffondere nel 
mondo, dopo che essi da Cristo risorto hanno ricevuto in pienezza il soffio
eterno della vita, il dono dello Spirito.
Don Renzo Lavatori
DOMENICA IN ALBIS OTTAVA DI PASQUA
    (15-04-2012)
     
 La sera di quel 
giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si 
trovavano i discepoli per timore dei giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse 
loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i 
discepoli gioirono al vedere il Signore, Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! 
Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse 
loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno 
perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. Tommaso, uno 
dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano 
gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non 
vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei 
chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”. Otto giorni dopo i 
discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a 
porte chiuse, stette in mezzo e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: 
“Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio 
fianco; e non essere incredulo ma credente!”. Gli rispose Tommaso: “Mio Signore 
e mio Dio!”. Gesù le disse: “Perché mi hai veduto, tu mi hai creduto; Beati 
quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Gesù, in presenza dei suoi 
discepoli, fecce molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. 
Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di 
Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. (Gv. 20,19-31).
La sera di quel 
giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si 
trovavano i discepoli per timore dei giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse 
loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i 
discepoli gioirono al vedere il Signore, Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! 
Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse 
loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno 
perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. Tommaso, uno 
dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano 
gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non 
vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei 
chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”. Otto giorni dopo i 
discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a 
porte chiuse, stette in mezzo e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: 
“Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio 
fianco; e non essere incredulo ma credente!”. Gli rispose Tommaso: “Mio Signore 
e mio Dio!”. Gesù le disse: “Perché mi hai veduto, tu mi hai creduto; Beati 
quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Gesù, in presenza dei suoi 
discepoli, fecce molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. 
Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di 
Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. (Gv. 20,19-31).
Il brano del vangelo di Giovanni mostra il cammino di fede verso il Cristo 
risorto da parte dell’apostolo Tommaso, quale esempio per ogni discepolo che 
voglia credere in modo pieno e radicale. Esso fa riflettere profondamente e ci 
invita a fare attenzione ad ogni gesto di questo racconto luminoso e vivace. 
Siamo nel giorno ottavo dopo la risurrezione di Cristo. I discepoli sono 
raccolti in casa e di nuovo Gesù appare loro e in particolare si rivolge proprio 
a Tommaso.
1. La incredulità di Tommaso
La incredulità di Tommaso verso il Risorto non è provocata da animo cattivo, ma 
dalla ristrettezza della mente, legata alla visione terrena delle cose. Sotto 
questo aspetto egli può essere identificato con ogni discepolo di Cristo, prima 
dell’esperienza pasquale (cf. Mt 28,7; Mc 11-13.14; Lc 24,11.25.38.41). Per tale 
ragione non accetta la dichiarazione dei suoi amici: “Abbiamo visto il Risorto” 
(Gv 20,25). Per lui è un’affermazione soltanto teorica. Anche lui ha visto il 
Signore, ma sulla croce; è rimasto toccato da quei chiodi, da quelle ferite, da 
quel dolore atroce. Com’è possibile una visione diversa del Cristo? Egli è fermo 
al crocifisso e non vuole spostarsi di là. A quello, sì, ci crede, perché lo ha 
visto realmente. Il resto sono tutte fantasie. Si spiega così la sua richiesta 
di una prova concreta e tangibile: vedere il segno dei chiodi e toccare le 
ferite di Gesù. Solo allora anch’egli potrà credere.
Si nota in Tommaso una certa durezza e un indugio alla fede, non un rifiuto. È 
vero che una fede basata sul vedere fisico non è sufficiente, ma può essere un 
inizio che conduce alla piena fede cristologica, diversamente da coloro che pur 
avendo visto non hanno creduto (Gv 6,36). Tuttavia una fede fondata sulla sola 
parola di Gesù è superiore (cf. Gv 10,38; 14,11). L’evangelista vuole descrivere 
un cammino completo di fede. Per questo introduce l’apparizione del Risorto, a 
porte chiuse (Gv 20,26), nella realtà di corpo glorioso, quasi per scuotere 
l’animo dubbioso e incerto di Tommaso.
2. La disponibilità di Gesù
 Gesù rinnova il saluto 
pasquale: “Pace a voi”, poi si rivolge subito a Tommaso. È chiara l’intenzione 
di muovere il cuore del discepolo. Egli riprende testualmente le espressioni 
proferite dall’apostolo ai suoi amici: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie 
mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato” (Gv 20,27). La ripetizione 
delle parole, che Tommaso aveva detto agli altri, serve a colpirlo nell’intimo. 
Egli si rende conto che Gesù vede nell’animo e prova vergogna di se stesso, 
insieme rimane sorpreso della bontà del Maestro, che gli viene incontro per 
esaudire il suo desiderio. Sono due segni precisi, la conoscenza divina e la 
misericordia, che fanno cadere ogni resistenza.
Gesù rinnova il saluto 
pasquale: “Pace a voi”, poi si rivolge subito a Tommaso. È chiara l’intenzione 
di muovere il cuore del discepolo. Egli riprende testualmente le espressioni 
proferite dall’apostolo ai suoi amici: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie 
mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato” (Gv 20,27). La ripetizione 
delle parole, che Tommaso aveva detto agli altri, serve a colpirlo nell’intimo. 
Egli si rende conto che Gesù vede nell’animo e prova vergogna di se stesso, 
insieme rimane sorpreso della bontà del Maestro, che gli viene incontro per 
esaudire il suo desiderio. Sono due segni precisi, la conoscenza divina e la 
misericordia, che fanno cadere ogni resistenza.
Poi il Signore lo richiama alla fede: “Non essere incredulo, ma credente” (Gv 
20,27). Infatti c’era il pericolo che Tommaso diventasse miscredente, dopo il 
fallimento della croce, se l’aiuto di Gesù non l’avesse sorretto e stimolato. 
Egli deve approfondire l’esperienza precedente, non può fermarsi ad una 
concezione generica del Messia, ma deve accogliere il Figlio dell’uomo 
glorificato dopo la sua morte. La sua fede deve diventare un’adesione a Cristo 
nel senso pieno e maturo.
All’invito di Gesù Tommaso apre il suo cuore e proclama con sincerità e totalità 
la sua convinzione: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28). È una professione 
calorosa, un’espressione di adorazione, una preghiera, un ringraziamento. Certo 
è molto più di un semplice riconoscimento del Messia. Essa indica la certezza 
proveniente dall’animo dell’apostolo, ma risuona in tutta la Chiesa ed è valida 
per ogni credente di ogni tempo. È una formula che esprime l’essenza stessa del 
vangelo di Giovanni. Tommaso ha riconosciuto nel Risorto, che identifica con il 
crocifisso e con il Gesù terreno a lui familiare, ora glorioso, una persona che 
è pienamente Dio, il suo Signore.
Gesù accoglie la confessione sincera di Tommaso, ma gli rimprovera di aver 
creduto solo dopo aver visto (Gv 20,29). Il percorso di fede ha portato 
l’apostolo a riconoscere il Risorto attraverso la constatazione sensibile della 
sua presenza, come d’altronde hanno fatto gli altri discepoli. Ciò non sarà più 
possibile ai credenti che verranno dopo di loro, i quali dovranno credere in 
Cristo senza poter toccare o vedere il suo corpo glorioso, ma fidandosi della 
testimonianza degli apostoli. Essi saranno ugualmente beati, perché, per mezzo 
della fede, potranno avere lo stesso rapporto di comunione e di amore con Gesù, 
il quale è ormai vivo e presente nella Chiesa. 
Don Renzo Lavatori
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