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LA DENUNCIA MISERICORDIOSA DELL’EGOISMO



Introduzione: la misericordia e la giustizia

La misericordia comporta il coraggio di affermare la verità e la bontà contro ogni abuso o egoistico interesse. Non si tratta solo di una benevolenza bonacciona e priva di solidi fondamenti veritieri. Ciò fa capire come Gesù sia stato anche forte e deciso a richiamare e rimproverare le forme false e distorte del comportamento umano, non con l’intento di condannare ma di risanare il cuore dell’uomo.
Con estrema schiettezza e coraggio Gesù è pronto a biasimare la condotta non sempre lodevole dei farisei, individuando i loro sottili meccanismi di mascherazione e d’ipocrisia, il loro sottile egoismo.
Un esempio tipico lo troviamo nel brano di Lc 17,12-14, dove si dice che Gesù entra in casa di un fariseo per pranzare. Si precisa che è un capo dei farisei, cioè una guida religiosa, un punto di riferimento morale e sociale. I farisei facevano parte di un gruppo tra i più ferventi del popolo; erano osservanti scrupolosi della legge di Dio, modelli per le folle in materia di dottrina e di vita. Si ritenevano persone autorevoli e tali volevano essere considerati. Luca è l’unico degli evangelisti a mostrare alcuni loro atteggiamenti favorevoli verso Gesù. Nel presente caso, il testo evangelico non aiuta a precisare se la persona che lo ha invitato, cioè il capo dei farisei, abbia sentimenti di sospetto e di discredito nei confronti di Gesù, come era comune nell’ambiente farisaico, oppure, al contrario, lo abbia ospitato per un senso di stima e di apprezzamento. Tuttavia il fatto che Luca annoti in quella casa la presenza degli scribi, di altri farisei che stanno a osservare; il fatto che ci sia anche un malato idropico, probabilmente sta a indicare che l’incontro è stato programmato dagli avversari di Gesù per metterlo alla prova.

1. La rottura coraggiosa dell’amore interessato

Dopo aver arringato tutti i commensali con parole ferme e forti, smascherando la loro ambizione, Gesù rivolge una parola a colui che lo ha invitato. Pur essendo fariseo, uomo giusto, anche lui ha bisogno di chiarire e rivedere il suo modo di attuare l’ospitalità, verificare soprattutto le motivazioni interiori che hanno originato in lui l’atto di accogliere persone a casa sua e metterle a mensa assieme con sé. L’intervento di Gesù riguarda propriamente il suo gesto ospitale. Questo, a uno sguardo superficiale, può sembrare segno di altruismo e di cortesia, ma a un osservatore più acuto può nascondere altri sentimenti meno nobili, come l’interesse, l’egoismo, il proprio vantaggio. È certo che invitare qualcuno a desinare in casa propria comporta sacrificio, impegno, dispendio di denaro, lavoro, tempo. Ma non sempre tutto questo è frutto di amore, quello chiesto da Gesù, l’amore puro e vero. La parola del maestro, indirizzata al capo dei farisei, prende lo spunto da un fatto della vita ordinaria e suggerisce quali persone debbano essere invitate a pranzo, ma il suo significato va al di là dell’accaduto per far emergere i valori di comunione, di donazione e di accoglienza contenuti e rilevati nello stare a mensa assieme.
Il discorso di Gesù affronta un piano più elevato e spiritualmente sconcertante: invitare qualcuno a pranzo in casa propria impegna tutto il cuore in modo da essere segno ed effetto unicamente dell’amore, che si riversa principalmente su coloro che ne hanno più bisogno e che ne sono più lontani, per condividere con essi il medesimo cibo come fossero i più intimi familiari e amici.
Anzitutto Gesù propone al fariseo una cosa assai sorprendente: “Quando prepari un pranzo o una cena, non chiamare (invitare) i tuoi amici”. Di solito succede il contrario. Quando qualcuno allestisce un pranzo o una cena, le persone, che più desidera siano presenti, sono proprio gli amici. Al pranzo, dove Gesù è ospite, il fariseo aveva invitato molte persone del suo ceto, tra le quali anche alcuni scribi, come si afferma in precedenza, cioè dottori della legge, individui autorevoli e istruiti.
Gesù prosegue facendo una seconda proposta: “Non invitare i tuoi fratelli”. L’appellativo “fratelli” va inteso in senso letterale di fratelli carnali. È noto quanto sia forte il rapporto tra soggetti legati da un vincolo di carne, di sangue e di affetto, soprattutto tra figli degli stessi genitori, da cui si forma il nucleo basilare della famiglia. L’unione si accresce nei momenti di gioia comune e nei momenti difficili. L’esortazione di Gesù non si ferma, ma presenta un terzo obiettivo: “Non invitare i parenti”, cioè le persone congenite, della stessa discendenza. La cerchia si allarga dai fratelli ai parenti, ai cugini, zii, nipoti, nonni, cognati. La parentela genera un continuo scambio di relazioni, di affetti, di interessi e aiuti reciproci, che sorgono e si sviluppano nell’arco dell’intera vita, dall’infanzia alla vecchiaia.
Infine Gesù espone una quarta direttiva: “Non invitare i ricchi vicini”. Di sicuro il capo dei farisei, che aveva ospitato il maestro, era un ricco, una persona facoltosa. A quella stessa mensa aveva invitato altre persone alla sua pari, possidenti, altolocate, illustri.

2. L’invito sconvolgente ad un amore gratuito

Ci si domanda per quale motivo Gesù dia raccomandazioni inusuali come quelle ora descritte, esortazioni che suonano molto strane. Egli lo dice chiaramente: “Perché anch’essi non ti rinvitino e ti venga reso il contraccambio (la ricompensa)”. In questo caso il gesto cortese dell’invito a pranzo è ripagato; il circolo dell’amore si chiude e l’amore di fatto resta prigioniero di quell’appagamento, senza la possibilità di effondersi ulteriormente e di essere ancora capace di donare. Esso viene infossato da un egoismo di fondo, che domina e soffoca il suo slancio vitale e lo fa miseramente inaridire e morire. Gesù vuole mettere in guardia proprio su una bontà interessata, che nel momento in cui dona pensa in realtà di ricevere. Non si può dire che sia un altruismo gratuito, totalmente aperto e sincero.
L’insegnamento a questo punto, partendo da una situazione concreta di un convito, si allarga su un orizzonte più vasto, fa intravedere quale sia la carità vera, o, per lo meno, elimina quei condizionamenti umani che hanno il potere di legare l’animo e di impedire l’espansione autentica della benevolenza. Il discorso si eleva, si amplia, si libra nello spazio della purezza e della totalità di chi vuole amare solamente per amore senza profitti o vantaggi di alcun genere. È l’amore rivelato e portato da Gesù, quell’amore che si chiama semplicemente cristiano.
Gesù offre la prospettiva al positivo, di come e di che cosa bisogna fare per attuarlo. Sempre nel contesto della convivialità, elenca una serie di persone che devono essere invitate; sono individui accomunati dal fatto che si trovano in una situazione di estrema povertà e nella impossibilità di dare qualcosa in cambio: mendicanti, storpi, zoppi e ciechi. Il moto della donazione deve essere aperto proprio a questi emarginati a causa del loro destino. Secondo i criteri umani il rapporto con loro non frutta niente né accresce il prestigio sociale, eppure Gesù afferma che essi devono risultare i primi ad esseri invitati. Con loro nasce e si sviluppa la vera comunione, in quanto sono riconosciuti di eguale valore e pari dignità, anzi formano la cerchia delle persone più care e amabili.
Dice Gesù: “Quando prepari un banchetto, chiama poveri (mendicanti)”, persone che non contano, non hanno un nome, non sono famosi, non possiedono alcunché e sono destinati ai margini. Mangiare assieme a loro implica condividerne la vita e l’amicizia, sentirli accanto come partecipi del medesimo spirito e uniti da comuni intenti.
I poveri sono specificati come storpi, zoppi, ciechi, per indicare in concreto gli individui socialmente più segregati e privi di alcuni elementi fondamentali per la sopravvivenza. Queste persone pertanto non possono ricambiare l’invito, poiché non hanno i mezzi materiali per ripagare il dono ricevuto. La generosità, che ha spinto a chiamarli, deve essere pienamente gratuita, senza l’attesa di un vantaggio o di una restituzione. Con il suo suggerimento Gesù si pone al di sopra delle più radicate e sacrosante abitudini umane. Consiglia di dare senza sperare di riavere, di invitare senza attendere un contro-invito. In altre parole insegna ad amare come lui ama. Egli ha preparato per gli uomini peccatori il banchetto della sua carne e del suo sangue, affinché fossero saziati e rigenerati dalla sua grazia. Lo ha fatto gratuitamente, donando tutto se stesso.

Conclusione: Il premio della felicità

Gesù promette al fariseo che, se eseguirà le sue proposte, sarà “beato perché non hanno da ricambiare”. È una beatitudine che nasce dal fatto di aver amato e, con l’amore, di aver reso gli altri beati, di averli rifocillati, non solo nel loro corpo, ma, a maggior ragione, nel loro cuore, facendo assaporare loro la familiarità e la condivisione tra persone che si vogliono bene. Sotto questo aspetto il ricambio dei beni non conta più, perché l’unico bene che ha consistenza e che riempie l’animo di felicità è l’amore, il vero amore cristiano, la carità evangelica.
Questa sollecita a non rimanere reclusi entro ristrettezze e schemi terreni, imbevuti di egoismo, ma spinge a considerare fratelli e amici coloro che umanamente non lo sono, anzi sembrano i più lontani e odiosi. Conduce a ritrovarsi tra gli ultimi, felice in mezzo ad essi.
Il Maestro precisa il tempo in cui chi ama otterrà la ricompensa e segnala il luogo dove la deve ricercare: “Alla risurrezione dei giusti”, nella vita che germoglierà dopo questa vita terrestre. In effetti la carità autenticamente libera e gratuita non può restare impigliata neanche entro i confini dell’esistenza storica, perché sarebbe da questi condizionata e delimitata, non potrebbe più avere la purezza e la gratuità totale. Gli interessi o vantaggi personali avrebbero il sopravvento. Essa deve sfociare nell’infinità del tempo e dello spazio, deve cioè combaciare con l’amore divino.

Don Renzo Lavatori


 

 

 

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