Approfondimenti
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IL PATIRE - L'AMARE - IL GIOIRE
Alcune espressioni di Veronica assumono un sapore di straordinaria profondità e di inaudita sorpresa. Non solo le gioie succedono alle pene, come due momenti distinti e distaccati uno dall’altro. Ella arriva ad affermare che il patire stesso si fa portatore di gioia. Una novità assoluta e incredibile. Anzi il patire si identifica con la gioia, che dona al patire una eccellente preziosità. Ha l’ardire di fare un paragone con tutte le felicità vissute nel mondo dalle persone più eccelse e ricche. Eppure ella dichiara che non ne ha trovata alcuna simile alla beatitudine della sofferenza. Ci si chiede quale sia la ragione di una affermazione umanamente così assurda e insieme così decisa e indiscutibile. Come può Veronica azzardare una asserzione di tale portata inverosimile e di esserne così convinta da non ammettere obiezioni di sorta, ma restare tranquilla e imperterrita? Non esiste al mondo una delizia tanto grande come il soffrire.
Lo sostiene lei ma ne dà anche la spiegazione illuminante:
“In questo mentre, parvemi che il Signore mi desse a conoscere la bellezza di questa gioia. Ma io non la posso paragonare a niente di questa vita, perché tutte le più pregiate gioie che si possono mai trovare, poste con questa, divengono nulla. È tale la sua bellezza, che, godendo; l’anima di avere tal gioia, le pare di godere un paradiso qui in terra; tanto è bella e desiderabile! Basta dire che l’ha formata, l’ha abbellita lo stesso Amore. Anzi è comprata ad un prezzo infinito, e vale più questa che tutti i tesori del mondo tutto. Divengono essi come niente o, per dir meglio, sono come fango. La sua bellezza supera tutte le bellezze dell’universo; la sua grandezza fa divenire ogni cosa un nulla; la sua chiarezza e splendore ci fa vedere che tutti i gusti e contenti di questa vita sono tenebre ed oscurità ben grandi” (D. V, 41).
Si tratta dell’inno alla gioia del patire nell’amare. Con una incantevole lirica Veronica canta l’elogio della sofferenza contemplandola nello splendore della sua bellezza. Una bellezza che sorpassa qualsiasi altra bellezza creata. E ciò è dovuto alla causa da cui ha origine un tale fulgore: l’Amore l’ha formata e l’ha abbellita. In tali parole Veronica esplode nell’ammirazione estatica di fronte a tanta leggiadria. Non resta altro che fissare lo sguardo su di essa per cogliere gli aspetti più attraenti. L’Amore costituisce la fonte suprema e ineffabile che ha reso il patire così amabile e piacevole. Quell’Amore di Cristo ha trasformato con il sacrificio della croce il soffrire in salvezza. La crocifissione di Gesù rivela l’evento redentore molto prezioso e costoso, che ha avuto il potere e il merito di far risplendere la sofferenza nella luminosità dell’amore.
Veronica esprime con lirismo il fulcro del mistero salvifico, assommando insieme il dolore con l’amore da cui emana il fascino di una bellezza incomparabile. Teologia, fede, contemplazione e poesia si amalgamano mirabilmente per inneggiare all’Amore di Cristo immolato. Ella ne è totalmente coinvolta e si lascia irradiare per esplodere nell’esclamazione finale di gioia:
“O gioia preziosa! io ti vo’ tenere appresso di me. E nissuno mi stia a nominare più patire; ma si dica e si nomini sempre gioia. E, se per sorte venisse persona alcuna tribolata da V. R., le dia questa nova, che non vi è più il nome di patire, ma che le tribolationi e i travagli si hanno da chiamare gusti e contenti, e si hanno da tenere cari, come gioie pretiosissime. Così sia” (D. V, 41).
Si giunge così alla conclusione sublime che identifica totalmente il patire con il gioire.
Ambedue formano una identità piena, tanto che non si può pensare alla sofferenza senza affermare contemporaneamente l’allegrezza:
le tribolazioni e i travagli si devono chiamare gusti e contenti.
A questo punto si può dire che l’esperienza veronichiana diventa teoria
comprovata e vissuta che dal patire e dall'amare fiorisce la felicità.
Don Renzo Lavatori
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